Sulla soglia degli ottant’anni, Joan Jonas non ha smesso di pensare all’arte come spazio di ricerca e di sperimentazione. Nata nel 1936 a New York, città feticcio che per l’artista, docente emerita al MIT Program in Art, Culture, and Technology, si conferma necessario luogo di creazione, il punto di partenza e di arrivo di ogni sua esplorazione nei linguaggi e nei territori sempre meno circoscritti della pratica artistica, Jonas anche nell’installazione totale concepita per il Padiglione statunitense ai giardini della Biennale ha infatti riaffermato con decisione la propria capacità di incrociare con consapevolezza e, talvolta, azzardo la scultura e la performance, la video arte e il disegno, la scrittura e la sound art costruendo ordigni percettivi e, assieme, narrativi di grande intensità e seduzione.
They Come to Us without a Word è un coinvolgente percorso immersivo, un viaggio e un’esperienza sinestetica costruita sull’assenza e sul suo costante, meraviglioso rovesciamento, un gioco di paradossi e di enigmi mai veramente inquietanti che suggerisce molteplici strategie di visione e di interpretazione, imbastendo genealogie, più che citazioni, eterogenee, dall’arte povera al teatro delle ombre, dalla pantomima all’installazione sonora. Così, se l’incipit (che è anche l’asciutto epilogo) della mostra è un monumentale fascio di tronchi che si erge, monumentale, davanti alla facciata neoclassica dell’ inconfondibile edificio palladiano che ospita il padiglione degli Stati Uniti, a segnare poi l’itinerario espositivo, un flusso percettivo che non conosce soluzione di continuità, è il contrasto tra l’oscurità archetipale in cui sono a tratti immerse le stanze e la luminosità persino accecante delle proiezioni, in cui personaggi e sagome, disegni e azioni si sovrappongono occupando, immateriali quanto ingombranti, lo spazio, amplificato da ingannevoli specchi veneziani, segnato dalla presenza di oggetti – colori e forme, disegni – sospesi e instabili. Epifanie e figure che sono della stessa materia dei sogni, fantasmi, ha detto Joan Jonas («Siamo abitati da fantasmi, le stanze sono abitate da fantasmi») immersi in un tessuto fitto di suoni e parole che restituiscono per frammenti e laconiche ritualità l’epica della metamorfosi firmata dallo scrittore islandese Halldòr Laxness, dichiarata ispirazione dell’opera Reanimation, il nucleo germinale da cui l’artista ha preso le mosse per la realizzazione del progetto veneziano, dove è il tempo del mutamento e la fragilità della natura a manifestarsi nella sua inafferrabile complessità: «Il tempo è l’unica cosa che tutti accettiamo di definire soprannaturale. Quantomeno non è né energia né materia; non dimensione, né figuriamoci, funzione, e tuttavia è l’inizio e la fine della creazione del mondo» (H. Laxness) .
Un lavoro complesso, chiaramente corale, frutto anche di una serie di workshop in cui sono stati coinvolti bambini e ragazzi dai 5 ai 16 anni, che si è avvalso tra l’altro della collaborazione del compositore e pianista jazz Jason Moran, autore delle musiche che accompagnano la performance They Come to Us without a Word II che l’artista proporrà dal 20 al 22 luglio al Piccolo Teatro dell’Arsenale di Venezia.
56. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE – LA BIENNALE DI VENEZIA, JOAN JONAS, THEY COME TO US WITHOUT A WORD, Presentata dal MIT List Visual Arts Center, Commissario e Co-Curatore: Paul C. Ha, Direttore del MIT List Visual Arts Center, Co-Curatore: Ute Meta Bauer, Direttrice del NTU Centre for Contemporary Art Singapore, Nanyang Technological University, Padiglione degli Stati Uniti, Giardini della Biennale, Venezia, 9 MAGGIO – 22 NOVEMBRE, 2015
immagini (cover 1, 3, 4) Joan Jonas, They Come to Us without a Word, 2013-2015. Production Still. Courtesy of the artist (2) Joan Jonas – Headshot