L’esposizione Conversation Piece Part VIII: Notte Oscura alla Fondazione Memmo vede in mostra Pauline Curnier Jardin, Victor Man e Miltos Manetas, in un dialogo sottile sul tema del buio e dell’oscurità, che pur relazionandosi per forza di cose con la sua controparte luminosa nella dicotomia luce-ombra, si fonda sulla premessa teorica di Giovanni della Croce, mistico spagnolo vissuto nel Cinquecento tra i più rilevanti della religione cristiana. Il santo nei suoi scritti considera l’oscurità in termini non dicotomici e non ortodossi, parlando del buio, dell’oscurità, della notte, come «momenti di attesa e decantazione del pensiero, di ambiguità seducenti e complesse, una fase cruciale del percorso verso la conoscenza e la rivelazione», come ci ricorda il testo della mostra.
L’esposizione, dunque, vuole presentare diversi modi di concepire la notte, considerando il buio come un fattore d’ispirazione e di creatività, ricollegandosi all’ «oscurità» contemporanea in cui siamo immersi, tra guerre, pandemie e crisi climatiche e sociali. I tre artisti in mostra, con la loro carica espressiva, sviluppano un ambiente ciascuno, fondandosi su tematiche molto differenti tra loro eppure affini, in un prodotto finale evocativo e perturbante. La marsigliese Pauline Curnier Jardin pone tematiche femministe in relazione a quelle belliche, di un passato oscuro che si fonda sul dramma della Seconda Guerra Mondiale e in tutta quella storia femminile dimenticata o distorta. La conseguente trasfigurazione dello spazio architettonico risulta inquietante e tetra, ma anche «magica», di una magia cosmica e vibrante. Il transilvano Victor Man presenta, invece, una serie di quadri oscuri e notturni, quasi metafisici e mai del tutto decifrabili, tra letteratura, storia dell’arte, memoria collettiva e vissuto personale. In essi l’elemento naturale a volte e le costruzioni sociali altre, fanno quasi scomparire l’umano, che nei dettagli e nei punti di vista è sempre tormentato.
Le sale, fortemente poetiche, dedicate a questi due artisti si raggiungono entrambe dalla prima sala della fondazione, sala dedicata all’ambiente multimediale di Miltos Manetas: #ManetasFloatingStudio. Esso, a differenza degli altri due, risulta meno cupo e più criptico, d’altronde com’è meno cupa (perché fatta di luce) e più criptica qualunque percezione digitale in confronto alla sua controparte analogica, ma ugualmente oscuro, di un’oscurità ossimorica, però, un’oscurità luminosa e stordente, un’oscurità fatta di bit o concepita su fondamenta digitali.
L’artista greco propone un’operazione in situ e in working progress con l’aiuto del suo «assistente» DALL-E (IA capace di generare immagini a partire da descrizioni testuali). La sua «caverna contemporanea», come Manetas definisce questo tipo di lavoro, è, in breve, un ambiente totalmente coperto dalla sua anti-pittura (una pittura effimera e leggera, prodotta versando sapone liquido sopra pigmenti di colore, sulla parete, priva di preparazione di base), tracciando e cancellando continuamente le immagini prodotte da DALL-E – infatti l’opera nel corso dell’esposizione ha continuamente cambiato forma, con l’artista che è intervenuto periodicamente.
L’ambiente, quindi, acquista caratteristiche anti-analogiche: analogicodigitali nella sua demiurgia, mimesis digitale nella sua messa in mostra, portando le concrete pareti dello spazio espositivo ad assomigliare, non tanto nella forma quanto nel senso, ad un ambiente digitale, ad uno schermo dei nostri dispositivi tecnologici esistenziali in continuo mutamento, sempre in bilico tra estetica e sapere, mai stabile e mai davvero chiaro. Il rapporto tra Manetas e DALL-E è reciproco e proficuo ad un’opera così trasversale ai diversi piani della realtà. Manetas e DALL-E, in un tutt’uno, sono il cyborg, ma il loro prodotto e totalmente opposto al bit, il loro prodotto è inconciliabile con lo spazio digitale. L’artista si fa piuttosto cyborg rupestre, macchina che non ha dimenticato la sua millenaria storia umana, producendo una contemporaneità fortemente caratterizzata dalla macchina digitale ma umana nel profondo. E cos’è più oscuro dello spazio digitale, prodotto da bit e generato da razionalissimi database, per l’umano, che invece vive di sensazioni, percezioni, sensi? Manetas pone in primo piano nel suo ambiente analogico e quasi tribale (la «caverna») tutti elementi che parlando di digitale sono esclusivamente umani.
Questo ambiente diviene, allora, metafora della condizione umana, immersa nel fluido contenitore di conoscenza che è lo spazio digitale, tra caratteristiche rassicuranti e perturbanti di una realtà tangente a quella del carbonio. Ma questa «caverna» è abitata anche da una «creatura» quasi «preistorica» (nata 20 anni fa in uno spazio in cui l’obsolescenza delle cose è quasi in tempo reale) che porta con sé la stessa metafora: si tratta di ManingtheDark.com (2004), figura umanoide fluttuante nell’oscurità, proiezione stratificata sulle pareti della stanza di un proto-NFT sotto-forma di sito web.
Il dispositivo di Manetas, dunque, è complesso e sfaccettato, travalica la dicotomia analogico-digitale così come la mostra travalica quella luce-oscurità. L’oscurità che mette in mostra Manetas è l’«oscurità del sapere» che ci attanaglia, tra l’analogico e il digitale in cui esistiamo, in cui il concetto di verità e di falsità non riesce a trovare più senso. ManingtheDark.com è un’illusione, è una creatura fantasmagorica che si pone come reale in uno spazio reale che si pone come fantasmagorico. I confini si fanno impercettibili, l’oscurità luminosa fa apparire fantasmi digitali, le caverne divengono simulacri del web, la realtà si sfaccetta sempre di più di una complessità effimera e campale.
Conversation Piece | Part VIII: Notte Oscura, a cura di Marcello Smarrelli, Fondazione Memmo, fino al 26 marzo 2023
Artisti: Pauline Curnier Jardin, Victor Man, Miltos Manetas
immagini: (cover 1-4-5) Fondazione Memmo, Miltos Manetas, Installation View, ph. Daniele Molajoli (2) Fondazione Memmo, Pauline Curnier Jardin, Installation View, ph. Daniele Molajoli (3) Fondazione Memmo, Victor Man, Installation View, ph. Daniele Molajoli