Nell’ultimo decennio, in Italia, c’è stata una nuova attenzione alla figura di Mondrian. Ha fatto da apripista, nel 1999, la riedizione della monografia di Filiberto Menna, Mondrian. Cultura e poesia, che, agli inizi degli anni Sessanta, ha posto il caso-Mondrian nella giusta luce, facendo pulizia dei pregiudizi e dei giudizi affrettati della cultura italiana.
Momenti significativi, tra gli altri, nel nuovo millennio, sono stati la ristampa di Tutti gli scritti dell’artista olandese, introdotti da Menna, e ormai introvabili (Mimesis, Milano-Udine 2013). Adelphi, nel 2015, ha presentato Vita, arte e mistica del celebre matematico e filosofo Brouwer: riflessione che, per Cacciari di Icone della legge, è riferimento obbligato per comprendere l’«arte senza soggetto» di Mondrian.
Ora, Luigi Paolo Finizio, autore, nel 1993, del Dal neoplasticismo all’arte concreta 1917-37 e, nel 2015, dell’Elogio dell’astrattismo, ha pubblicato Piet Mondrian. Il chiaroveggente, libro impegnativo e contromano (Europa Edizioni, Roma 2016). Perché contromano questa lettura di Mondrian? Perché non si pone sulla linea di chi, come Els Hoek – e quest’interpretazione è passata, perfino, nei libri di scuola –, legge il percorso dell’artista in chiave teosofica: nella prospettiva di Blavatskij e di Steiner, di Annie Besant e di Leadbeater, stressando e come assolutizzando l’impostazione, che ha implicato anche le radici della filosofia romantica, di Jaffé, di Seuphor e di Menna.
Finizio, invece, interroga la pittura neoplastica di Mondrian seguendo la rotta di «una visione antropologica volta a congiungere l’arte con la vita». L’artista non ha forse detto, nel Dialogo sul neoplasticismo (1919) che «arte e vita […]sono una cosa sola, sono uno»? Questa visione antropologica, avverte Finizio, ha come finalità “un sogno di umana felicità, […] attraverso chiare prefiguranti forme di pittura astratta”, che tende “a rappresentare le leggi vitali, evolutive e di progresso d’ogni aspetto della realtà: dalla natura alle strutture sociali”.
Per accostare questo sogno «di ottimistica chiaroveggenza», Finizio analizza l’esperienza di Mondrian che, iniziata in Olanda e nutrita, a Parigi, con il cubismo e con la vertigine della vita moderna, esplode a New York dove realizza, tra il 1941 e il ’43, New York City e Broadwey Boogie Woogie, emblemi di quest’utopia. L’anatomia di Finizio è volta soprattutto a esaminare le «equivalenze plastiche» e i «rapporti equilibrati» tra la pittura neoplastica e l’ambiente nel quale l’uomo, secondo l’artista, «perdendo il suo meschino e patetico orgoglio individuale sarà felice nel paradiso terrestre da lui creato».
Quest’idea – comune all’avanguardia storica, che Menna ha chiamato «profezia di una società estetica» – è all’opera, per Finizio, nel mitico atelier parigino di rue Départ numero 26, concepito come rapporto «d’interazione con la città, con l’ambiente aperto e variabile del mondo urbano»: un «laboratorio celeste», come è stato nominato, in cui «si materializzò l’idea generativa e pratica dell’utopia neoplastica oltre il piano della tela, verso la città».
Per Finizio, ne sono convinto, la «chiaroveggenza» di Mondrian, contro ogni iperrealismo e ogni egoismo, vale anche al giorno d’oggi. Dice che l’arte è modificazione dell’esistente, latitudine di rapporti e di equivalenze, spazio d’incontro con l’ambiente e con la vita, con la città che, intanto, è diventata città globale.