Enzo Calibè (Napoli, 1980) affronta ormai da anni tematiche ambientali relative alla modificazione del Paesaggio, una trasformazione reale e concettuale che ormai favorisce e sostiene un nuovo Capitalismo tutto ‘green‘. Alla base della ricerca dell’artista napoletano c’è, infatti, un’ attenta riflessione socio-politica che punta l’attenzione sul fantomatico sviluppo sostenibile, un ossimoro, un’azione economica che viola l’equilibrio naturale del pianeta più che salvaguardarlo. Appare chiaro, dunque, che «lo stesso armamentario linguistico e comunicativo attraverso il quale negli scorsi decenni l’ecologia ha tentato di fronteggiare il potenziale distruttivo di uno sviluppo insostenibile, oggi è stato completamente sussunto dai guru del marketing» per favorire una altrettanto impossibile green economy. La ricerca estetica di Calibè si sofferma proprio sugli stereotipi naturali proposti dalle campagne pubblicitarie dove la natura viene sostituita dalla sua rappresentazione mediatica.
La mostra si presenta come un intenso contro-discorso sullo sviluppo sostenibile e sulla salvaguardia della natura muovendo dal suo intrinseco carattere ricorsivo e sottolineando l’aspetto tautologico dell’idea stessa di panorama contemporaneo, un luogo completamente smaterializzato che assume connotati del tutto concettuali.
Quello di Enzo Calibè, parafrasando Gilles Clément, si potrebbe definire un manifesto del quarto paesaggio poiché si occupa di un altrettanto spazio interstiziale, lo scarto tra la natura tangibile e quella immateriale, un ambiente virtuale a cui l’uomo prende parte senza esserne partecipe, dove può contemplare la perfezione di un fiore senza sentirne il profumo. Lo scenario naturale con cui ci confrontiamo è, infatti, quello degli spot, pubblicità che mostrano luoghi incantevoli, perfetti, eden terrestri in cui poter immergersi senza alcun timore, visioni come quelle concentrate in una accattivante video-installazione che apre il percorso espositivo e che ci conduce ad una riflessione sul nostro graduale distacco dall’ambiente naturale.
Calibè, appropriatosi del linguaggio del marketing, crea installazioni mimetiche dove non è immediata l’ operazione di debranding effettuata sulle immagini in cui il paesaggio da sfondo ritorna ad essere protagonista. In Ecobusiness landscape (2016), una grande installazione a parete, le numerose fotografie patinate diventano gli elementi minimi di una narrazione sul paesaggio da cui si esclude completamente la figura umana, un’opera in cui l’alternanza di pieni e di vuoti forma grandi ombre, assenze ingombranti che modificano l’aspetto del paesaggio, proprio come l’indifferenza dell’uomo di fronte ai limiti naturali.
Grazie alla tecnologia oggi si ha la netta sensazione che i limiti ambientali siano inesistenti o facilmente aggirabili, non esistono limitazioni né di spazio, né di tempo, il paesaggio diventa «luogo comune» facilmente assimilabile e soprattutto modificabile, area indefinita priva delle caratteristiche principali di luogo, quelle segnalate da Marc Augè, in quanto non è identitaria, né relazionale, né tanto meno storica poiché tende a non conservare le proprie radici. A questo proposito la fotografia digitale ha apportato sostanziali modifiche al concetto di memoria e di condivisione contribuendo alla spersonalizzazione dei luoghi. I dispositivi che si usano per catturare le immagini, infatti, filtrano e memorizzano così rapidamente da non consentire un contatto diretto ed ininterrotto con l’oggetto fotografato, permettendo di fagocitare immagini che non restituiranno mai l’esperienza del momento. Nella serie di disegni con china e acquerelli, A landscape is a landscape is a landscape… (2016), Calibè mette in primo piano macchine fotografiche, smartphone e tablet, le lenti attraverso cui ci illudiamo di ristabilire una vicinanza con l’ambiente che invece passa decisamente in secondo piano. I disegni realizzati con la tecnica del puntinismo rinviano alle rappresentazioni grafiche di vecchie enciclopedie illustrate, un continuo rimando alla stampa che si manifesta anche in Scomposizione di un miraggio (2016) dove attraverso il processo inverso della stampa industriale l’artista prova a decostruire un immagine per renderla più naturale ed effimera, in netto contrasto con l’installazione collocata sulla parete di fronte, Inventario della scomparsa (2016), i cui colori accesi, innaturali, tipici delle stampe digitali, seguono le gradazioni della tabella dei colori Pantone.
Infine Enzo Calibè annota come, per contribuire allo sviluppo dell’ecologia come nuova forma produttiva al servizio del capitalismo, le strategie di marketing riscoprano anche la letteratura del Novecento trasformando una celebre citazione di Marcel Proust («La scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi.») in uno slogan pubblicitario che l’artista lascia emergere, tono su tono, sulla lunga parete bianca che fiancheggia l’esposizione; un cortocircuito visivo ed intellettivo, un’unica grande didascalia in cui si concretizza il concetto di «sparizione del paesaggio» ma che, allo stesso tempo, diventa un’ esortazione a guardare oltre la rappresentazione del visibile.
Enzo Calibè. A Landscape is a landscape is a landscape is a landscape…, a cura di Stefano Taccone, Galleria E23, Napoli
Immagini (cover 1) Enzo Calibè, «Inventario della scomparsa», 2016, courtesy l’Artista e Spazio E23, Napoli (2) Enzo Calibè, «Senza Titolo (Ecobusiness Landscape), 2016, courtesy l’Artista e Galleria E23, Napoli (3) Enzo Calibè, Scomposizione di un miraggio, 2016, courtesy l’Artista e Galleria E23, Napoli (4) Enzo Calibè, La scoperta non consiste nella ricerca di NUOVI PAESAGGI, ma nell’avere NUOVI OCCHI, 2016, courtesy l’Artista e Galleria E23, Napoli