Per la terza volta in quattro biennali, dopo This Progress di Tino Sehgal nel 2013 e Faust di Anne Imhoff nel 2017, il Leone d’Oro viene assegnato a una performance.
Sun & Sea (Marina) è il titolo di questa piece corale e polifonica che le tre ideatrici del progetto Rugilè Barzdziukaitè, Vaiva Grainylè e Lina Lapelyte, hanno messo in scena, con la cura di Lucia Pietroiusti, in uno degli ex Magazzini dell’Arsenale della Marina Militare di Venezia, sede del Padiglione Lituano.
La predilezione verso progetti trasversali che mettono insieme musica, danza, cinema e teatro, nel nome di un’opera che si configura come evento irripetibile e spettacolare, sta diventando una costante nelle valutazioni della giuria veneziana, in linea con un’attitudine generale di riscoperta del genere performativo riscontrabile all’incirca nell’ultimo decennio. Un’attitudine questa, per certi aspetti nostalgica e in parte derivante dalla possibilità offerta dalla performance di non perdere il contatto con quel carattere di unicità, originalità e irripetibilità dell’opera, andato completamente perduto in gran parte della produzione artistica post-benjaminiana.
Stavolta però, rispetto alle più complesse articolazioni spaziali dei progetti di Sehgal e Imhoff, il rapporto tra il pubblico e la performance risulta completamente modificato: complice la configurazione architettonica del Padiglione che consente di tenere ben distinte la zona in cui si svolge la scena e il sovrastante ballatoio da cui gli spettatori la osservano, l’opera si iscrive in una relazione visto-vedente di tipo tradizionale, propria della bidimensionalità della pittura. Di fatto è una grande scena di genere quella che si offre allo sguardo del pubblico; una scena in cui i personaggi si attivano a turno nel canto, abbandonando il loro «posto al sole», la loro confort zone che ne determina la condizione di «spiaggiati».
La luce artificiale, come da interno-giorno, conferisce alla scena una qualità cinematografica da HD screen che lascia intravedere un tentativo – non è un caso che una delle tre ideatrici del progetto sia una film maker – di «trans-medializzazione» della performance che attinge al linguaggio del musical, del videoclip piuttosto che dei grandi tableaux vivant in movimento di un certo cinema colto che, da Pasolini a Jarman, cita la grande pittura.
Un’aura sacrale connota i canti e le movenze dei personaggi di questo affresco d’umanità rilassata fino al limite della decadenza; personaggi che si configurano, a un primo sguardo, come altrettante sculture iperrealiste di Duane Hanson che tanto popolano l’immaginario collettivo delle passate biennali. Le loro voci si dispiegano su un sottofondo d’organo e narrano di preoccupazioni banali – prevenire le scottature, pianificare le prossime vacanze etc. – che diventano man mano sempre più rilevanti fino a toccare l’angoscioso tema di un’imminente catastrofe ambientale e raggiungere, qui, il loro acme drammatico.
Alla maniera brechtiana – per altro evocata nella motivazione ufficiale della premiazione – l’irruzione di un elemento aulico, l’opera lirica, nella banalità del quotidiano, trasfigura la realtà in sub-realtà. Lo shock percettivo che ne deriva, pone d’innanzi all’urgenza di sottrarsi a quella pericolosa condizione di «vacanza» del pensiero che è un po’ il tema di questa biennale e dell’auspicio – May you live in interesting times – da cui prende il titolo.
Tuttavia, nonostante la pluralità di temi e le sovrascrizioni linguistiche che fanno di questa performance un’opera “espansa”, il progetto nell’insieme, come si dice, vince ma non convince del tutto.
In questo suo eccesso di lirismo tendente ai toni epici, l’opera non riesce a superare la soglia di quell’anti-monumentalità e anti-narrazione che da sempre distingue il genere della performance dai suoi più vecchi cugini cinema e teatro. E, di fatto, rispetto ai sopramenzionati lavori performativi che lavoravano su un registro creativo a ciclo continuo – l’opera per Seghal e Imhoff è il risultato di un lavoro durissimo di preparazione che continua nell’happening- la performance lituana rimane imbrigliata nel registro rappresentativo di una fictional drama che fa riflettere sull’urgenza di alcuni temi quanto mai attuali, senza generare visioni realmente «interessanti».
Ma forse il punto è proprio questo. In che cosa consiste questo «interesse» tanto evocato da Ralph Rugoff, a tal punto da farlo diventare il fulcro attorno a cui ruota un’intera Biennale? Ce lo siamo chiesti più volte attraversando i padiglioni nazionali, alla ricerca di una tensione verso qualcosa che avesse a che vedere con la capacità dell’arte di generare visioni, di agire secondo una logica di spostamento del piano intellettuale, ma anche percettivo ed emozionale; trovandoci, piuttosto, di fronte a una serie di discorsi“interessanti”, ma ancora troppo impastati degli eccessi di criticismo tipici di un’ideologia postmoderna oramai al tramonto.
Forse, al di là dell’attualità stringente delle tematiche trattate dal padiglione vincitore, esiste una motivazione che appartiene, prima ancora che alla giuria, al pubblico della Biennale, avendone questo decretato la vittoria fin dalle prime giornate d’apertura, ben prima della premiazione ufficiale. Una motivazione che ha a che vedere con il merito attribuibile al collettivo lituano di aver acceso i riflettori su quello stato di inerzia e di vacanza di pensiero cui soggiace un’umanità sempre più confinata ad una situazione da «quadro di genere», costretta ad agire entro regole spesso dettate dai media, a muoversi, dunque, entro i confini delineati da uno schermo.
Uscire da questa condizione si può, e lo si può fare proprio attraverso il medium della performance che le artiste lituane hanno utilizzato come strumento di re-azione a questo livellamento delle coscienze (la spiaggia in tal senso è una grande metafora dell’abbattimento delle differenze legate al contesto socio-culturale di appartenenza).
Esprimersi attraverso il corpo, nelle sue infinite possibilità d’azione, significa riappropriarsi di un processo creativo che, nell’attivare sempre nuovi dialoghi e reazioni – come quelle messe in scena in questo teatro balneare d’avanguardia- diviene fondamento di un’ecologia umana, prima ancora che di un’ecologia dell’ambiente.
Non c’è da stupirsi dunque dell’interesse unanime suscitato da questo progetto che pur non brilla per originalità, nell’ambito di una Biennale che tenta di mettere ordine, piuttosto che creare scompiglio (la scelta di presentare per due volte gli stessi artisti nei due spazi principali dei Giardini e dell’Arsenale, di includere nell’esposizione più donne che uomini piuttosto che solo gli artisti viventi, l’allestimento organizzato in modo regolare senza nessuna concessione alle talvolta stupefacenti sbavature del caso, sono tutte manifestazioni di una scelta curatoriale molto precisa che procede scientemente in questa direzione).
Non ci resta che prenderne atto, consapevoli che, e qui risiede il senso vero dell’opera, è la polifonia delle idee che muove, affascina e tiene avvinto il pubblico, al di là della spettacolarizzazione di una narrazione che, in questo caso, sembra eccedere un po’ il senso. Ed ecco che la performance lituana diviene l’esempio più evidente di quanto riscontrato in generale in questa edizione della Biennale che, da una parte, dibatte con superficialità e con una prospettiva spesso a-storica i grandi temi dell’attualità (dal post-colonialismo, all’emergenza ambientale, alle discriminazioni di genere etc.); dall’altra assume su di sé il merito di portarli alla ribalta, ponendoli al centro di uno spazio allestito ovunque come una quinta teatrale, come altrettanti centri di “interesse” su cui, avverte il curatore, occorre tenere accesi i riflettori dell’arte.
Padiglione Lituania, a cura di Lucia Pietroiusti, Edificio 42, Arsenale Marina Militare, Fondamenta Case Nuove 2738/C (nei pressi di Campo de la Celestia), Biennale di Venezia 2019, 11.05 – 31.10.2019
immagini (all): Rugile Barzdziukaite, Vaiva Grainyte, Lina Lapelyte, «Sun_Sea (Marina)», opera-performance alla Biennale Arte 2019, Padiglione Lituano, Venezia © Andrej Vasilenko