Nella cinquantottesima edizione della Biennale d’arte di Venezia si riconferma la tendenza, già presente nelle edizioni precedenti, di un’attenzione crescente nell’interazione tra arti visive e musica. Il modus operandi che negli ultimi anni finalmente allarga nuovamente i confini dell’arte contemporanea nei confronti di altre discipline, ci racconta che la creatività non può essere settoriale; problema maggiormente sentito nella nostra nazione forse a causa della differenziazione delle discipline artistiche, anche a livello accademico. L’esplorazione multisensoriale, storicamente legata alla ricerca dell’ «opera totale», ci regala flussi di interazione purtroppo non sempre inediti.
Partendo dalla performance Leone d’oro del Padiglione della Lituania, all’interno del quale è stata ricostruita una spiaggia con tanto di sabbia, asciugamani e performer in costume che intonano una serie di cori mentre svolgono azioni comuni da spiaggia ( c’è chi prendere il sole, chi si spalma la crema, chi gioca con le racchette ). Le motivazione della giuria sono: «per l’approccio sperimentale del Padiglione e il suo modo inatteso di affrontare la rappresentazione nazionale. La giuria è rimasta colpita dall’originalità nell’uso dello spazio espositivo, che inscena un’opera brechtiana, e per l’impegno attivo del Padiglione nei confronti della città di Venezia e dei suoi abitanti. Sun & Sea (Marina) è una critica del tempo libero e della contemporaneità, cantata dalle voci di un gruppo di performer e volontari che impersonano la gente comune».
La performance utilizza sì una forma legata alla musica, ma, al di là della particolarità del contesto e della tipologia di fruizione, quello che risulta opinabile è la scelta del repertorio. Seppure il tema della performance sia quello della futilità delle azioni nel tempo libero, presentare un lavoro multidisciplinare, non curandosi di dare lo stesso peso a tutti i media utilizzati, penalizza senza dubbio il risultato finale dell’operazione. Sarebbe stato, senza ombra di dubbio, più efficace scrivere della musica, seppur «futile», che non seguisse canoni «tradizionali». Forse l’arte contemporanea dimentica di guardare a ciò che avviene nelle performance di teatro sperimentale (giusto per citare un nome tra tutti in Italia, le Societas Raffaello Sanzio ) dove queste tipologie di azioni avvengono ormai da decenni e l’unica cosa che cambia è il contesto: come se un padiglione nazionale ed un teatro fossero realtà poi così diverse, o come se il teatro non si fosse mai spostato fisicamente dal teatro stesso. Premiare una «performance canora», senza nemmeno provare ad analizzare la parte musicale, è un atteggiamento decisamente riduttivo. Forse chi è chiamato a giudicare e valutare questo tipo di operazioni dovrebbe avere una cultura meno settoriale, soprattutto se decide di premiare tendenze verso le quali non è preparato.
A prescindere dalla distanza, ormai a tratti incolmabile, tra la musica e l’arte contemporanea (ormai due settori che si guardano da lontano), la loro interazione riesce a raggiungere apici davvero interessanti solo quando il dialogo tra le diverse discipline è diretto con uguale intenzione e conoscenza, ovvero quando non c’è un aspetto che prevarica sull’altro.
Ottimo da questo punto vista il lavoro presentato nella mostra dell’Arsenale dell’artista Libanese Tarek Atoui il quale, alla ricerca di timbri inediti, conduce da anni una ricerca sulla costruzione di strumenti sia fisici che software non convenzionali. L’installazione si presenta con una serie di piccoli palchi disseminati nello spazio e sui quali sono presenti strumenti di diversa natura: alcuni che godono di una interazione cinetica, altri che mettono in risonanza corde e o piatti metallici. Il tutto è poi pilotato attraverso una patch realizzata grazie al linguaggio max msp, di cui è a disposizione dei visitatori una schermata video, dalla quale è possibile vederne i controlli generali.
Il lavoro si presenta sia visivamente che acusticamente molto elegante ma allo stesso tempo complesso ed il risultato percettivo è mutevole ed appagante. Caratteristiche presenti in parte anche nella grande installazione di Shilpa Gupta For, in your tongue, I cannot fit, nella quale la ricerca sul timbro, cede il posto ad un utilizzo «politico» del suono.
L’installazione è costituita da cento microfoni all’interno dei quali sono presenti in realtà degli altoparlanti, che scendono dal soffitto grazie ad un cavo audio. Questi altoparlanti, riproducono versi presi da cento poesie di poeti incarcerati dal VII secolo ai giorni nostri per il contenuto delle loro poesie o per le loro idee politiche.
Prima si ascolta il suono fuoriuscire da un unico altoparlante e successivamente si sente lo stesso suono provenire dagli altri novantanove altoparlanti. Installazione estremamente suggestiva, che restituisce anche grazie alla sua estesa spazializzazione una percezione sonora di grande impatto.
Di estrazione politico/sociale è anche il lavoro La Bùsqueda di Teresa Margolles, artista messicana che esamina da una prospettiva femminista le brutalità della narco-violenza che affliggono il Messico. Nel lavoro l’artista ha registrato i suoni prodotti da un treno che attraversa Ciudad Juarez e li ha trasformati in una bassa frequenza ansiogena che risuona nello spazio espositivo. Il suono, mette in risonanza mediante degli altoparlanti dei pannelli in vetro recuperati dal centro della città, montati sulle strutture in legno indipendenti. Questi pannelli sono tappezzati di fotocopie di poster strappati raffiguranti i volti di donne scomparse.
Lavoro di denuncia è anche quello di Natascha Suder Happelmann per il Padiglione tedesco. Il lavoro è composto da un’installazione immersiva che riconfigura lo spazio del Padiglione Germania, attraverso elementi architettonici, scultorei e sonori e lo trasforma in un’esperienza sinestetica per il fruitore. Sei musicisti e compositori ( Jessica Ekomane, Maurice Louca, DJ Marfox, Jako Maron, Tisha Mukarji,Elnaz Seyedi), con stili e linguaggi diversi, hanno contribuito alla realizzazione della installazione sonora Tribute to whistle. Le composizioni nascono dal suono di un fischietto, strumento attraverso il quale gli immigrati cercano di attirare attenzione quando cadono in mare durante il loro viaggio ma che è anche il suono prodotto dalle forze di polizia durante i blitz di controllo. Il suono è stato elaborato in una molteplice varietà di ritmi e suoni. Ciascun contributo sonoro è stato registrato su otto canali e sarà riprodotto in costellazioni mai uguali tra loro, da 48 altoparlanti distribuiti su una struttura di impalcature. Il visitatore, interagendo con la struttura, attraverso il suo movimento all’interno del Padiglione, contribuisce a generare uno spazio sonoro cangiante.
L’elaborazione di un suono «concreto» è all’origine del lavoro acusmatico di Tomas Saraceno; si tratta del suono delle sedici sirene sparse fra i sei sestieri della città di Venezia che avvisano la popolazione che l’acqua alta dovrebbe raggiungere la città entro due o quattro ore. Acqua alta: En Clave de Sol specula su quale possa essere il suono della città galleggiante tra cento anni, quando la città di Venezia sarà sommersa a causa dell’innalzamento del livello del mare. Le registrazioni delle sirene originali, sono state elaborate grazie a dati provenienti dalle stazioni di controllo dell’acqua alta, a quelli delle maree e ad altri dati relativi all’inquinamento e restituiscono una composizione a sei canali riprodotta nella Gaggiagrande dell’Arsenale. In una teca sono presentate le partiture nelle quali è possibile visionare i dati che hanno permesso la realizzazione della composizione.
L’utilizzo di una grande mole di dati, genera anche il nuovo lavoro audio/video del musicista giapponese Ryoji Ikeda. Data-verse 1 (2019) è una proiezione di grande formato che immerge i visitatori in un oceano di dati acustici e visivi. Attingendo a enormi serbatoi scientifici di dati, alcuni estrapolati da istituzioni quali il CERN, la NASA e lo Human Genome, Project, Ikeda ha sviluppato composizioni matematiche per processare e rielaborare i dati grezzi in «versi» digitali, che esplorano rappresentazioni dello spazio, delle particelle elementari sino alla portata infinita dell’universo. Lavoro estremamente efficace e raffinato, che cattura il visitatore proiettandolo in una fitta dimensione «digitale».
Tutt’altra strategia quella usata quest’anno dal Padiglione del Giappone con l’opera Singing Bird Generator; entrando nella padiglione ci si imbatte in una grande camera d’aria a forma di seduta circolare, dove i visitatori sono invitati a sedersi. Da un foro presente nella seduta partono una serie di tubi che si collegano a numerosi strumenti a fiato. Il movimento dei visitatori sulla camera d’aria, attiva la trasmissione di aria compressa ai fiati, che grazie all’utilizzo di dita meccaniche generano note casuali .Un dejavù ereditato da artisti come Max Eastley, che inizia a realizzare installazioni che sfruttando il vento a partire dagli anni 70, o come i più recenti lavori ma decisamente più complessi dal punto di vista compositivo, di Andrea Valle o di Simone Pappalardo.
E’ positivo che l’utilizzo dell’aspetto sonoro ( che trovo fuori tempo massimo definire «sound art» a causa del peso retorico e già ormai storicizzato di questo termine) nell’arte contemporanea, si sia ricavato un posto nella moda del momento, ma l’approssimazione con la quale si affrontano questi temi è decisamente disarmante. Il sistema critico dell’arte contemporanea, non può più permettersi di essere così settoriale nei confronti di qualcosa che è continuamente in evoluzione. E’ ovvio che è impossibile essere aggiornati su tutti i piani della creatività ma è anche vero che si è ormai persa la buona abitudine dell’astenersi dello scrivere di ciò su cui non si è competenti e, soprattutto si è persa l’abitudine allo studio e all’informarsi prima di giudicare qualcosa. Questo atteggiamento partorisce falsi miti e soprattutto, appiattisce la valutazione della ricerca degli artisti verso il basso.
Biennale Arte 2019. 58. Esposizione Internazionale d’arte, Venezia, 11.05 – 24.11.2019
immagini: (cover 1) Trek Ataoui, Biennale di Venezia 2019. Performances during the opening of the Venice Biennale, May 9–10, 2019, 6pm (2) video vimeo Tarek Atoui, «The Spin», 2016, Instrument: 24 ceramic pieces, between 10 and 75 cm, Central international exhibition, Arsenale (3) Shilpa Gupta1, «For, In Your Tongue, I Cannot Fit», sound installation with 100 speakers, microphones, printed text, and metal stands; site specific; 2017-18; Commissioned by YARAT Contemporary Art Space and Edinburgh Art Festival; Courtesy: The Artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana | Photographer: Pat Verbruggen (4) Photo Caption: Shilpa Gupta, «For, In Your Tongue, I Cannot Fit», sound installation with 100 speakers, microphones, printed text, and metal stands; site specific; 2017-18; Commissioned by YARAT Contemporary Art Space and Edinburgh Art Festival; Courtesy: The Artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana | Photographer: Johnny Barrington (5) Video, Tomas Saraceno, «Acqua alta: En Clave de Sol», installation at the Gaggiandre of the arsenale, central international exhibition, Venice Biennale 2019 (6) Video Ryoji Ikeda, «Data-verse 1», 2019