Un bombardamento stroboscopico delle bandiere di Grecia, Gran Bretagna, Turchia rimbalza agli occhi di una platea affollatissima. Sono le scritte «democracy, poverty, labour» proiettate in bersagliamento mediatico.
Inizia così il concerto: «United Snakes».
Che senso hanno nazionalismi e categorizzazioni in un contesto che si vorrebbe globalizzato non solo nell’economia, ma in una prospettiva cosmopolita? La superficie terrestre è un diritto, così come la circolazione e l’ospitalità. Kant parlava dell’uomo come «cittadino del mondo» e di ‘possesso comune della superficie terrestre’, in quanto, essendo la terra sferica e finita, gli uomini sono destinati a rincontrarsi e a condividerla.
Tutto è ciclico: è la volta di Hymn for the big wheel e del canto soul del giamaicano Horace Andy, eretto nel suo corpo ancheggiante.
«The big wheel keeps on turning
On a simple line day by day
The earth spins on its axis
One man struggle while another relaxes»
Intanto sui ledwall si alternano le domande esistenziali che attraversano a intervalli tutte le nostre vite:
«Qual è lo scopo del vivere? Servire il bene supremo. Dove sei? Mi trovo nel nulla. Qual è lo scopo di morire? Avere una vita. Qual è la definizione di etica? Non ho etica. A cosa serve l’intelligenza? A scoprire di averla».
Domande impegnative, che mentre ci ravvivano interrogativi, scuotono la prospettiva che abbiamo della vita. E poi un semplice, quanto perfetto: «A cosa pensi? A nulla, a meno che tu non mi chieda».
Intanto i fasci di luce che fluttuano sugli schermi cedono il posto a una facciata con una serie di finestre: sono quelle dei nostri monitor o le celle di una prigione? Il quesito è aperto, contemplando la metafora.
Con la voce cupa e profonda di Daddy G, incalzante sul palco, l’atmosfera scende nel gotico. Rising Son è ricerca, movimento, fra automatismi e slanci intimi.
«Automatic crystal remote control, they come to move your soul».
«Girl I love you» è una dichiarazione d’amore a tutti i loro idoli: artisti, poeti, intellettuali, attivisti, filosofi impegnati a lavorare per difendere e dare spazio al non-inferno dei viventi. Mona Hatoum, Chagall, Edward Snowden, Bertol Brecht, Thomas Mann, Lucian Freud, Hannah Harent, Karl Popper.
«Questa canzone è stata scritta 20 anni fa» – commenta Robert Del Naja, mentre veniva fondata L’Europa – «Ora, dopo 20 anni, la Gran Bretagna esce e la xenofobia cresce. «Eurochild».
«Hell is round the corner where i shelter
Isms and schisms we’re living on a skelter
If you believe i’ll deceive then common sense says shall you receive
Let me take you down the corridors of my life
And when you walk, do you walk to your preference
No need to answer till i take further evidence
I seem to need a reference to get residence
A reference to your preference to say i’m a good neighbour
I trudge so judge me for my labour
I walk in a bar and immediately I sense danger
You look at me, girl, as if i was some kind of a
A total stranger»
Siamo catapultati in Matrix fra caratteri alfanumerici, algoritmi e stati di twitter che scorrono come in una roulette. L’asse ondeggia fra percezione e virtualità.
La critica al consumismo in una lista di «I need» arriva con «Pray for Rain» e il canto intenso di Andrew Vowles.
I visuals di Inertia Creeps sono una testata giornalistica pronta a denunciare con tutta la forza di bassi, tastiere e batterie il caso Brexit. Ai titoli si alternano i volti mascherati di alcuni politici, pronti a sfuggire da ogni responsabilità, a negare ogni autenticità. Take it there, brano dell’ultimo album, cantata da Tricky (di cui hanno atto anche Ritual Spirit) è un invito al cambiamento, attraverso il linguaggio della rete e la potenza della rete stessa. E’ un invito ad unirsi, cambiare, accettare, fidarsi, costruire. Condividere, non solo il «mi piace» su facebook, ma un nuovo modello di vita per un nuovo sistema sociale. Quello del sentirsi tutti quanti Charlie Hebdo, Istanbul, Kabul, Nizza, Parigi, Baghdad, Orlando Etc. Con Unfinished Sympathy e il canto melodico di Deborah Miller, si chiude un’ora e 13 minuti di concerto, seguiti da inaspettati botti d’artificio a mitragliette.
«Siamo tutti in questa situazione insieme». E’ un Je suis everything, senza ripensamenti, che ci lascia una serie di domande aperte. Sono le stesse che il Living Theatre pronunciava nel 1968.
Come nutrire tutti? Come arrestare tutte le guerre? Come disintegrare la violenza? Come annullare il razzismo? Come liberarci dal capitalismo/denaro? Come finirla col militarismo? Come porre fine ai sistemi autoritari? Come finirla con il sistema di classe?
Come trovare le risposte a queste domande?
Immagini (tutte) Massive Attack, concerto a Roma nell’ambito del Just Music festival luglio 2016, immagini di Elena Giulia Abbiatici.