Il progetto, l’aeroplano, l’automobile, il foro (si pensi a Fontana Fontana, 1987), la fenditura, la curva, la luce al laser, la geometria, la meccanica, l’astrologia e la fisica, l’elettricità e l’elettronica, lo spazio e la parete, l’artificiale e il naturale, la civiltà delle macchine, la freccia, il camouflage, l’aria, l’impronta e l’ombra delle cose, la sospensione, la velocità, la corsa frenata che si chiama vita. Attorno a questi nuclei felici e a un’idea dell’arte come idea («il perfettibile è il superamento dei vincoli tecnologici e la conseguente realizzazione di opere sempre più vicine all’idea»)[1], come ansia d’infinito, come sguardo che si sporge al di là del reale e della materia, Maurizio Mochetti (Roma, 1940) ha costruito, negli anni, un paesaggio silenzioso che si nutre di essenze, di controspazi, di eterotopie.
Sin dalla sua prima personale, organizzata negli spazi della Galleria La Salita (1968), dove espone 10 progetti e due realizzazioni per esprimere un’analisi mentale dell’esperienza visiva e sterzare sul sentiero di un sapere estetico che si pone come prassi volta a toccare con mano la fisicità della luce – Sfera trasparente con proiezioni di luce del 1962 e Lama di luce del 1967 («un diaframma che divide in due lo spazio come una parete») evidenziano questa strategia – per trasformare ed ampliare la temporospazialità. «L’opera d’arte non ha dimensioni», avvisa l’artista, «perché lo spazio è la misura della conoscenza»[2].
Nel 1969, subito dopo la sua prima mostra personale presentata da Marisa Vescovo, Mochetti vince il Premio Pascali a Polignano a Mare e il premio scultura alla VI Biennale di Parigi. È sempre in questo periodo che l’artista pone luce sulla progettazione dell’opera in quanto spazio della meditazione, primum movens della creazione, sentiero luminoso attraverso il quale esprimere (esternare) l’idea, il concetto, la riflessione analitica, l’urgenza di concepire arte e di pensare contestualmente all’arte[3].
Poco dopo, accanto ad una serie di mostre esemplari – una tra tutte, Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/1970 curata da Achille Bonito Oliva e la partecipazione, nel 1970, alla Biennale di Venezia (cui seguiranno via via quelle del 1978, del 1982, del 1986, del 1988 e del 1997) – Mochetti disegna una traiettoria estetica che invita gli spettatori a incastrarsi «in una direzione di pensiero chiusa in sé (che non conduce in alcun luogo)»[4] (Vescovo). Il suo è difatti un atteggiamento che, se da una parte mostra una «inclinazione cibernetica» che «pare identificarsi con il controllo artistico»[5] (Trini), dall’altra sfrangia il luogo comune per appropriarsi con eleganza di territori inesplorati, di «lavorare sull’infinito»[6], di screpolare il tempo e lo spazio, di creare modalità espressive in cui interno ed esterno, aperto e chiuso coincidono, fino a far identificare il locus con il logos.
Il suo studio romano (via delle Mantellate) che proponiamo in una serie di fotografie scattate il 18 luglio 2014, si presenta, oggi, come un luogo denso di costruzioni, come un progetto totale, come lo spazio in cui la mente dell’artista si estroflette per mostrare procedimenti unici e preziosi.
[1] M. Mochetti, Note 1960-1980 inedite pubblicate in G. Celant, Maurizio Mochetti, cat. della mostra tenuta a Sassuolo negli spazi di Palazzo Ducale, dal 19 settembre al 30 novembre 2003, Skira, Ginevra-Milano 2003, p. 124.
[2] M. Mochetti, Note 1960-1980, cit., p. 212.
[3] Cfr. F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, Einaudi, Torino 1975.
[4] M. Volpi, Dieci progetti di Maurizio Mochetti, cat. della mostra tenuta a Roma negli spazi della Galleria La Salita (seconda sede di via Gregoriana 5), novembre 1968 (testo anche in inglese tradotto da C. Lawrence), s.p.
[5] T. Trini, Mochetti. 5 maggio 1969, cat. della mostra tenuta a Milano negli spazi della Galleria dell’Ariete, aprile 1969 (testo anche in inglese, a fogli mobili), s.p.
[6] M. Mochetti, Note 1960-1980, cit., p. 130: «Con la luce laser si possono fare cose impossibili da realizzare con la luce artificiale, permettendomi di lavorare sull’infinito».