Il poeta, si sa, è un esploratore di parole. Ma che fare quando la parola non si presenta più allo stato puro e tende sempre più a combinarsi con l’immagine? Nella pubblicità, nei giornali, al cinema, alla televisione, parola e immagine stanno insieme. Neppure adesso il poeta può rinunciare alla sua esplorazione. Il poeta visivo non idolatra i contenuti, ma neanche li rifiuta; anzi è da essi stimolato continuamente. […] non è più possibile una poesia come arte esclusiva della parola. La nuova poesia vuole essere un’arte generale del segno[1].
La presa di coscienza di Emilio Isgrò, datata 1966, rappresenta solo uno dei primi episodi di ammissione della mutata condizione di una pratica comunque artistica, la poesia, che dagli anni Sessanta riprende a scardinare le tradizionali barriere linguistiche e i convenzionali vincoli sintattici, posizionandosi energicamente su un fertile terreno di sperimentazione. L’insieme di queste esperienze rientra nella forse ristretta etichetta di poesia visiva, un campo allargato di operazioni estetico-letterarie, una zona di contatto e di «convergenza di molte ricerche tra le più serie» (Argan). La mappatura disegnata da Lea Vergine sottolinea il carattere essenzialmente italiano del fenomeno, che sfrutta sicuramente il coraggio delle avanguardie primonovecentesche, senza dimenticare il primo concretismo svizzero (Gomringer, D. Rot) e i gruppi brasiliani ( i fratelli Augusto e Haroldo de Campos) e cecoslovacchi (Kolar), ma che propone una certa varietà nella sostanziale simultaneità della proposta: la Poesia Tecnologica del gruppo fiorentino nel ’63 (Pignotti, Miccini, Marcucci, La Rocca, Ori, Malquori); i napoletani (Martini, Caruso, Rubino, Piemontese, Nazzaro); le sperimentazioni collagistiche e grafiche romane di Balestrini, Giuliani, Pedio, Porta; tra Bologna e Milano Vicinelli e Sanesi; i contributi fondamentali di Carrega, Spatola, Martino e Anna Oberto, Accame, Isgrò, Bentivoglio, Vaccari, Mignani, Vitone, Landi, Ferrari, d’Ottavi, Niccolai, Nannucci, Mussio, Xerra, Perfetti, Sarenco[2]. L’affermazione della Poesia Visiva è testimone di quel corto circuito (pittura da leggere o poesia da guardare?) secondo cui, come ha notato Pignotti, il ricorso all’immagine rivela il limite della parola, ma nel contempo l’intervento della parola evidenzia il logoramento dell’immagine. Le traiettorie operative del movimento prevedono un ripensamento delle strutture segniche (lettere alfabetiche, ideogrammi, corsivi, arabeschi, immagini) e un riposizionamento, una vera e propria risignificazione non più all’interno del canonico spazio del testo, ma, come ha suggerito Lyotard, nello spazio della figura, dove «il significante acquista un significato in se stesso, per le sue qualità fisiche, materiali, plastiche»[3]. E sullo stesso sentiero Menna rintraccia quella autonomia di cui si è ormai dotata l’arte «ut scrittura», invadendo lo spazio della figura[4]. Del resto, l’auspicio allo sconfinamento e alla sperimentazione, a quella «contaminazione sempre più spinta tra verbale e pittorico» individuata ancora da Menna, arriva anche da Barilli, quando nel 1981, registra lo stato di crisi di una letteratura ormai pronta a scavalcare lo spazio esaurito della frase (Viaggio al termine della parola. La ricerca intraverbale, Feltrinelli, Milano 1981). I contributi necessari ad ufficializzare questa traiettoria artistica arrivano, come spesso accade, dalle riviste e dai momenti espositivi, sismografi puntuali di ogni manifestazione della creatività umana. Se Lamberto Pignotti con fumetti, francobolli e fotografie si fa portavoce della poesia tecnologica, oltre che con scritti fondamentali pubblicati in particolare su «Questo e altro» e su «Paese Sera», la Galleria Quadrante di Firenze è il luogo dello svezzamento nel ’63 della poesia visiva, con la mostra «Tecnologica», che propone opere dei pittori Bueno, Loffredo e Moretti, dei musicisti Bussotti e Chiari, dei poeti Pignotti e Miccini. L’autorevole voce di Dorfles nel ’65 (Nuovi riti, nuovi miti, Einaudi 1965) pone l’attenzione sull’immissione di elementi linguistici mutuati dalla sfera tecnologica e pubblicitaria tra le maglie ormai allargate della poesia, di cui «Tecnologica» è prova lampante.
Alla poesia visiva e a quella tecnologica si affianca solitamente l’attività del Gruppo ’70 (nasce ufficialmente nel biennio ’63-’64, con i convegni fiorentini «Arte e Comunicazione» e «Arte e Tecnologia») e il lavoro di riflessione affidato a riviste quali «Dopotutto», «Linea Sud», «Civiltà delle macchine», «Nuova presenza», «Il portico», «Lineastruttura», «Ex», «Lotta Poetica», attraverso le idee comuni di ironia, contestazione e critica alla civiltá delle immagini e di rovesciamento degli slogan. In questo senso risulta esemplare anche l’esperienza di Tomaso Binga, la cui attività è scandita da appassionate osmosi tra poesia, pittura e performance, volte a scardinare falsi stereotipi attraverso il restyling di un già noto, di parole svestite e rivestite, dardi intinti spesso in un’ironia dissacrante. I suoi «Dattilocodici», sovrapposizioni di segni linguistici che si condensano in una nuova visualizzazione ideografica, si pongono come inaugurali (anni Settanta-Ottanta). Il contributo verbale alle arti visive diviene quindi pratica diffusa, ma il clima di interconnessioni e sconfinamenti disciplinari favorisce il percorso inverso ancora tra Sessanta e Settanta, e artisti quali Baruchello, Novelli, Rotella, di Bello, Patella e Parmiggiani non tardano ad iscriversi ai ranghi. Negli stessi anni, inoltre, c’è un momento in cui la poesia incontra anche la critica, in particolare nelle esperienze esemplari di Cesare Vivaldi, Edoardo Sanguineti e soprattutto Emilio Villa[5].
Una serie di mostre nel tempo ribadiscono la presenza costante di queste tendenze artistiche: «La scrittura» nel 1976 a cura di Menna, Mussa e Pignotti, «La forma della scrittura» (Bologna 1977), «Le stanze d’Agorà» (Genova 1991); mentre il ’93 è l’anno della rassegna «Fiuggi poesia 1993», a cura di Franco Falasca, che si occupa del rapporto tra poesia e contributi elettronici, dal 17 Maggio all’1 Agosto 2014 va in scena a Salerno, alla Galleria Tiziana Di Caro, «Viaggio al termine della parola/Journey to the end of the word», a cura di Antonello Tolve. Infine tra Settembre 2014 e Gennaio 2015 la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee di Napoli ha proposto all’interno del Progetto XXI una ricostruzione della parabola della poesia visiva, un ampio programma di mostre ed incontri a cura di Giuseppe Morra, intitolato «La scrittura visuale/La parola totale».
[1] G. Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi, Feltrinelli, Milano 1999.
[2] L. Vergine,L’arte in trincea. Lessico delle tendenze artistiche 1960-1990, Milano, Skira, 1999, pp. 107-111.
[3] A. Trimarco, Filiberto Menna. Arte e critica d’arte in Italia. 1960/1980, La Città del Sole, Napoli 2008, p. 73.
[4] Ibidem
[5] A. Trimarco, Italia 1960-2000. Teoria e critica d’arte, Paparo edizioni, 2012, p. 32.
immagini (cover 1) Viaggio al termine della parola, installation view, Tiziana di Caro Gallery, Salerno 2014 (2) È una vecchia incisione, 1982, dattilocodice / typecode, 56 x 21 cm (Courtesy of Galleria Tiziana Di Caro, Salerno) (3) Viaggio al termine della parola, installation view, Tiziana di Caro Gallery, Salerno 2014 (4) Ho battuto le mani, 1982, dattilocodice / typecode, 56 x 21 cm (Courtesy of Galleria Tiziana Di Caro, Salerno)