È in mostra, fino al 9 marzo, prima di spostarsi all’interno del complesso di San Paolo di Modena, presso il Museo di San Salvatore in Lauro, a Roma, la mostra Pandemonio, personale di Sergio Padovani (Modena, 1972), organizzata dalla Fondazione THE BANK – Istituto per gli studi sulla pittura contemporanea e da Il Cigno GG Edizioni.
La mostra è curata da Cesare Biasini Selvaggi, con Francesca Baboni e Stefano Taddei, e comprende oltre 60 dipinti, molti inediti, dalle svariate dimensioni, cupi e weird, dal sapore rinascimentale eppure così contemporaneo, postmoderno e nietzschiano. Nell’incontro tra la deformazione di Francis Bacon e i mondi caotici di Hyeronimus Bosch, la stabilità assoluta di Piero Della Francesca e la rappresentazione cupa e inclinata di Egon Schiele, la sacralità senza tempo e lo sporco hic et nunc, il senso dell’affresco nella materia e il senso dell’aktion nel gesto assente da disegno preparatorio, la mostra si articola in una serie di stanze sempre più interne e sempre più profonde, fino a giungere nel sottosuolo, luogo perfetto per il termine dell’esposizione.
Nell’articolato percorso, fatto di stanze, corridoi e scalinate, ci si trova ad imbattersi, nel suo centro, in un’opera curiosa e straniante, l’unica opera a non essere un dipinto, l’unica sperimentazione che abbandona l’immortale nobile pittura per immergersi nello spazio analogicodigitale. Lo spazio sacro del piano della tela e della tavola si fa profondo e instabile, il pennello, che immaginiamo sempre protesi indispensabile dell’artista si trasforma in processo computerizzato, la miscela tanto cara a Padovani di olio, bitume e resina diviene immateriale sequenza binaria di bit, allineati da un’intelligenza artificiale che “oltre il mondo” soffia un delirio transumano, la poetica della macchina.
L’opera in questione prende il titolo della mostra: Pandemonio, ed è un video che incrocia pensieri eterogenei, arti parallele ed incrociate, in una torbida crasi. Abbiamo, come scritto, l’immagine in movimento, immaginata dalla macchina (un’intelligenza artificiale generativa) su input dell’artista: le sue parole, in una poesia che mira al senso e al destino dell’uomo, e la musica, anch’essa autografa dell’artista, facente parte della produzione del suo progetto musicale Macchina Anatomica.
Il risultato è una serie di vorticosi “quadri” fluidi, in eterno turbinio, che mostrano, in una caotica distruzione sempre più percepibile, il rapporto tra l’umano e l’antropodo, che diventa un kafkiano dialogo a se stessa, di un’umanità quasi biblica che crea, desidera, si pone in continua crescita tranne poi trovarsi sull’orlo dell’autodistruzione.
Nel movimento continuo del vortice sintetico, tra interni domestici, chiese gotiche, scene rurali e paesaggi di quartiere semi-apocalittici, con un fuocherello di un modesto camino che man mano si trasforma in incendio dirompente in linea con l’aumentare della frequenza e della potenza musicale, l’insetto, una sorta di mantide, che nasce e muore dalle increspature dell’immagine, salvo poi riemergere dalle pareti, dal soffitto, dall’uomo con cui divide l’immagine, è presenza perturbante e scomoda, unheimlich freudiano, che nella sua allarmante stranezza si lega alla figura umana, ne diventa confidente, osservatore, compagno di viaggio, sua metamorfosi, inquietante Saturno pronto a divorarlo.
Nell’allucinazione tempestosa ad un certo punto leggiamo: “Salve D. oggi è un buon giorno per la vanagloria”, con “D.” che in un preambolo scopriamo essere: “D. come Destino / D. come Direzione / D. come Demiurgo”. Si aprono allora percorsi di riflessione eterogenei e intimi, eppure esistenziali. Senso personale (specifico) e senso generale (totalizzante) si mescolano nell’ontologia dell’esistenza virata diversamente in ogni mente umana, perché nella vanagloria c’è il “mondo”: c’è il compiacimento, il demerito, l’ambizione. Ed è così per ogni frase che nei sottotitoli delle immagini leggiamo, facendoci sempre accompagnare da una musica per nulla subalterna agli altri elementi, una colonna sonora che caratterizza l’esperienza e che si fa mimetica del senso visivo.
Il grande insetto onnipresente ci accompagna da tutta la Storia, è senso e metafora, destino e struttura, dio e uomo, e Pandemonio è opera stratificata che Padovani tesse in tutte le sue parti facendola, però, raccontare dalla macchina, accumulando significanti tutti miranti l’enigmatico significato.
Sergio Padovani. Pandemonio, a cura di Cesare Biasini Selvaggi con Francesca Baboni e Stefano Taddei
Museo San Salvatore in Lauro, Roma, 30 gennaio – 9 marzo, 2024
Immagini (tutte) Sergio Padovani, «Pandemonio», frame.