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Home News Focus

Please Come Back. Il Mondo come Prigione?

Elena Giulia Rossi by Elena Giulia Rossi
16/03/2017
in Focus
Please Come Back. Il Mondo come Prigione?

ClaireFontaine, PleaseComeBack, 2008

Please Come Back è il titolo della mostra in corso al MAXXI. Lo sguardo si posa sulla prigione come sistema di reclusione e sorveglianza, per poi sollevarsi in direzione del paesaggio panottico digitale e sulla libertà presunta, maschera del più sofisticato sistema di controllo, manipolatore di dati e desideri.

La mostra si divide idealmente in tre sezioni: Dietro le mura, Fuori dalle mura, Oltre i muri per seguire gradualmente l’espandersi del controllo, dalla prigione come spazio di isolamento e punizione, alla griglia urbana, fino ad oltrepassare il confine fisico ed espandersi nell’aere da dove raggiungere e radicarsi nella sfera più intima dell’individualità.

Please Come Back, una scritta comune alla società del consumo e titolo della mostra preso dal progetto del collettivo Claire Fontaine, si costituisce nel ruolo di soglia, quella che separa l’uomo dalla schiavitù del desiderio del consumo, formalizzazione di un’illusione, fino a quando ci si sente in obbligo di varcarla ad ogni costo.

Nella sezione Dietro le mura, dove anche Please Come Back è collocata, troviamo pitture e disegni derivati dalle esperienze dirette di reclusione della turca Gülsün Karamustafa, detenuta in Turchia negli anni ’70, e di di Zhan Yue. Le interviste dell’artista poliedrico Gianfranco Baruchello a detenuti veicolano esperienze dirette e le ordinano in una narrazione che arriva ad un finale privo di speranza.

Elisabetta Benassi, «The Bullet-Proof Angela Davis», 2011, exhibition view at MAXXI, photo Cecilia Fiorenza

Le installazioni, rispettivamente di Rossella Biscotti (The Prison of Santo Stefano, 2011), che riprende l’applicazione del modello del panottico dell’Isola di Santo Stefano, e di Elisabetta Benassi (The Bullet-Proof Angela Davis, 2011), dedicata alla figura di Angela Davis che si è battuta per l’abolizione della galera, congelano ed estetizzano l’aspetto politico della prigione e della sua resistenza.

H.H.Lim, The cage the bench and the luggage, 2011, galvanized steel and aluminium suitcase with padlocks and chain, 484 x 216 x 228 cm, Collection of the artist, exhibition view at MAXXI, photo: Cecilia Fiorenza

L’occhio sorvegliante che ci invita a guardare attraverso le video camere di I Thought I was Seeing Convicts (2000) di Harun Farokci, ritraggono la ‘prigione come spettacolo’. La gabbia di H.H.Lim che accoglie nel foyeur del museo (assieme all’installazione di Elisabetta Benassi), ci invita nella prigione mentale di una condizione di autocensura, di esposizione costante ad una sorveglianza ormai metabolizzata e interiorizzata.

Rä di Martino, Authentic News of Invisible Things (tank), 2014, double channel video installation

Si esce poi Fuori le Mura per includere nell’inquadratura della coscienza la prigione urbana. Il modello di urbanizzazione globale del Monumento continuo di Superstudio (1969), il recinto londinese di Rem Koolhas e Elia Zenghelis (con Madelon Vriesendorp e Zoe Zenghelis), la propaganda militare tra realtà e finzione dell’installazione video Authentic News of Invisible Things (tank) di Rä di Martino,  sono alcuni dei lavori che visualizzano diversi aspetti della prigione urbana, fuori dalle mura della prigione propriamente detta.

La sezione Oltre i muri si spinge oltre la fisicità, si addentra nella dimensione ubiquitaria e onnipresente del tempi moderni, una condizione che trova una sua collocazione temporale con l’attacco terroristico dell’11 settembre che ha delegato all’occhio della sorveglianza il compito di entrare indiscriminatamente all’interno di qualsiasi pellicola protettiva della privacy del cittadino.

Jananne Al-Ani, «Shadow Sites II», 2011, Single Channel Digital Video, Production Still from , Courtesy the Artist and Abraaj Capital Art Prize, photo: Adrian Warren

Altre chimere sono entrate in un gioco sempre più duro e schizofrenico: droni, tecnologie satellitari, oggetti invisibili che rafforzano il controllo dall’alto, alcuni di questi nascosti all’occhio umano come i satelliti e cablaggi sottomarini rivelati nelle immagini di Trevor Paglen. Ancora una volta interpretazioni estetiche come quelle del film di Jananne Al-Ani (Shadow Sites II, 2011) si alternano ad incursioni nel vivo della storia, come nell’ intervista ad un operatore americano di droni Predator di Omer Fast (Five Thousand Feet is the Best, 2011), o quella riproposta (attraverso la ricostruzione di materiale d’archivio) da Zimmer, Gespräche (2006) di Dora García, nell’incontro di un ufficiale della STASI (polizia segreta tedesca) e un informatore per dare concretezza a concetti astratti di paura, controllo, autorità, obbedienza, segretezza.

La mostra prosegue nell’originale pubblicazione edita da Mousse Publishing con una serie di saggi e di apparati antologici e iconografici. Nel suo Smile You’re On Camera. Estetiche della Sorveglianza nell’arte Contemporanea ate e post 11 Settembre, Simone Ciglia attraversa l’estetizzazione della sorveglianza partendo dalle esperienze estetiche della rete, come quella di Wolgang Staehle che nel 2001 che catturava l’orrore in diretta delle Torri Gemelle attraverso un progetto in real time, in quel momento in mostra alla Postmasters Gallery di New York e in presa diretta con una video camera puntata sul World Trade Center.

Con La città panottica. Strategie di controllo e pratiche artistiche, lo storico Luca Quattrocchi si avvicina alle pratiche dell’arte contemporanea contestualizzandole nel quadro storico – politico della prigione e del modello di sorveglianza urbano, in cui includere il modello panottico settecentesco di Jeremy Bentham, la sua lettura negli scritti di Michel Foucault e le sue successive applicazioni, fino ad arrivare alla concretizzazione moderna del panottico come «figura di tecnologia politica che si può e si deve distaccare da ogni uso specifico» per riprendere le parole che Quattrocchi cita da Foucault (Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, 1975) e che traghettano il discorso verso le pratiche artistiche contemporanee.

Berna Reale, «Americano», 2013, Video, sound, 3’ 42’’, Courtesy the artist and Galeria Nara Roesler

Negli Algoritmi come prigioni di vetro, Tiziano Bonini raggiunge le fondamenta algoritmiche del panottico digitale e il cosiddetto ‘pubblico algoritmico’, quello di chi si costituisce volontariamente, quasi in uno stato di ipnosi, allo stato di sorveglianza del mercato. Patricia de Vries e il teorico visionario Geert Lovink, intervengono con un ottica propositiva, chiamando alla necessità di «vedere l’Io come interdipendente e relazionale» per aiutare a moltiplicare le vie di fuga dalle nostre prigioni ossessionate dai dati» (p. 74). Ai saggi segue una parte antologica che orchestra testi di archivio con le opere in mostra e un ricco apparato iconografico che richiama ed aggiunge visivamente altri lavori fondamentali nell’ambito dell’estetica della sorveglianza. L’acquaforte di Gian Battista Piranesi, ripresa dalla serie The Imaginary Prisons (rimaneggiamento di una edizione del 1745), The Brig del pioniere del cinema sperimentale Jonas Mekas, l’ installazione ambientale Infinite Cell di Alfredo Jaar (2004), l’ operazione concettuale del collettivo MTA, offerto alle telecamere alle telecamere per la durata di un anno, sono alcuni dei lavori d’archivio richiamati dalle immagini selezionate per la sezione Dentro le mura. La video installazione Alphaville e outros (2011) di Antoni Muntadas, le operazioni relative al tema della sorveglianza dello street artist Bansky, Sorting Demons (2003) di David Rockeby, sono collocate nell’archivio di immagini di Fuori le mura. L’utopistica visione del pioniere Nam June Paik di Good Morning Mr Orwell (1984), il ponieristico lavoro di net art Securityland di Julia Scher che alla sorveglianza ha dedicato tutta la sua ricerca, e l’estetica dei droni di Drone Shadow dell’artista e scrittore James Bridle (2012), arricchiscono l’apparato iconografico di Oltre le mura.

(7) CHEN CHIEN-JEN, «People Pushing», 2007-2008, Courtesy CHEN CHIEN-JEN Studio

Mostra e catalogo sono due componenti di una riflessione in fieri, stimolo aperto a proseguire la riflessione per essere così in grado di «convincere noi stessi e gli altri che esiste un ‘altrimenti’ e per aprire le celle su futuri imprevedibili che si trovano fuori dalle prigioni protette dai dati e dalle app. (Patricia de Vries Geert Lovink, p. 79). D’altro canto, la mostra e la sua lettura, ci collocano pur sempre sul limite di una soglia, quella di Please Come Back e il punto interrogativo che segue a Il mondo come prigione?, sottotitolo della mostra, ci consente ancora una via di fuga, prima che il punto interrogativo si trasformi in esclamativo.


«Please Come Back. Il Mondo come Prigione», a cura di Luigia Leonardelli e Hou Hanru, Museo MAXXI, Roma, 09.02 – 21.05.2017, catalogo Mousse Publishing (Milano 2017)

Immagini: (cover -1) PCB_ClaireFontaine, «PleaseComeBack», 2008 (2) Elisabetta Benassi, «The Bullet-Proof Angela Davis», 2011, Allestimento al MAXXI, foto Cecilia Fiorenza (3) H.H.Lim, «The cage the bench and the luggage», 2011, acciaio zincato e valigia di alluminio con lucchetti e catena, 484 x 216 x 228 cm, Collezione dell’artista, allestimento al MAXXI, foto Cecilia Fiorenza (4) Rä di Martino, «Authentic News of Invisible Things (tank)», 2014, double channel video installation (5) Jananne Al-Ani, «Shadow Sites II», 2011, Single Channel Digital Video, Production Still from  , Courtesy the Artist and Abraaj Capital Art Prize, photo: Adrian Warren (6) Berna Reale, «Americano», 2013, Video, suono, 3’ 42’’, Courtesy l’artista e Galeria Nara Roesler (7) CHEN CHIEN-JEN, «People Pushing», 2007-2008, Courtesy CHEN CHIEN-JEN Studio

 

 

 

 

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