Ricordo ancora bene quando Beatrice Pediconi ci ha sorpresi tutti spostando l’asse da una certa riconoscibilità architettonica a un versante della fotografia più libero, capace di svincolarsi dal morso del vero e di creare una presa indiretta della realtà mediante speculazioni acquee, trasparenze e smarrimenti, rifrazioni concave e convesse che restituivano, illo tempore, una piacevole ambiguità atmosferica. Le campiture architettoniche prima erano ritratte con una certa partecipazione metafisica (come non pensare a uno degli ultimi lavori effettuati sulla pelle della casa del fascio di Giuseppe Terragni, quel capolavoro realizzato a Como tra il 1932 e il 1936), poi lasciate via via alla regola e al caso: la regola precisata dall’attenzione dell’artista nel diluire in acqua ingredienti cromatici, il caso determinato dall’inchiostro disciolto appunto in quegli specchi d’acqua e di cielo che Beatrice andava a sperimentare sulla terrazza di casa, quando abitava ancora a Roma, per creare veli fluttuanti e estranianti, ombre e sembianze quasi fumanti. Da allora, e parliamo d’un buon decennio fa, il lavoro di Pediconi si è affinato, allungato lungo una ricerca che oggi fa i conti con l’aniconico: ma da una angolazione inaspettata, poetica, a tratti (a ritagli) geometricamente avvincente, suadente. Gli originali e inediti risultati espressivi a cui è approdata l’artista mediante la fiducia nel campo di possibilità non ancora del tutto risolte.
Con la sua nuova personale alla Galleria Sara Zanin intitolata Nude (terza in ordine di tempo – quest’ultima è a cura di Cecilia Canziani), l’artista ci presenta infatti una serie di riflessioni, di operazioni combinatorie, di visioni linguistiche che, riconducendo la fotografia ai suoi dati costitutivi interni (elementari) e allontanandosi dall’idea del messaggio fotografico inteso in senso storico e convenzionale (come immagine perfettamente analoga alla realtà), trasformano ulteriormente il mezzo impiegato. Sopprimendo definitivamente l’idea di registrazione del reale per aprire il sistema a una inedita avventura visuale, Beatrice Pediconi pone sotto il riflettore la specificità della polaroid, non della macchina fotografica istantanea, ma della pellicola autosviluppante, proponendo un nuovo processo definito dall’artista emulsion lift che consiste nello scollamento per mezzo di bagno caldo dell’emulsione fotografica (della pelle) e nel suo riutilizzo (ritaglio, ricucitura, riapplicazione) su superfici immacolate dove si proiettano tempi sospesi, si riversano felicemente forme sinusoidali, si ridisegnano (sotto l’occhio vigile dell’artista che non lascia nulla al caso) brillanti geometricità.
Con questa sua nuova e inedita operazione, Beatrice Pediconi sembra muovere dall’assunto di far emergere una doppia memoria: la memoria dello scatto fotografico consumato e ridotto a brandello (a ricordo di un canto lontano) e la memoria dell’acqua: il tutto depositato successivamente su un terzo magazzino memoriale: quello della carta su cui prendono nuova forma le immagini. «Untitled» avvisa l’artista in una dichiarazione di poetica che possiamo leggere nel comunicato stampa (tutti i lavori in mostra sono dei senza titolo, tranne uno, all’ingresso, Diario di un tempo sospeso, composto di 42 piccole carte realizzate durante il periodo di quarantena, più una 43esima che esce dallo schema e rappresenta l’uscita dal lockdown), «agisce come il testimone di un processo di cui resta solo un’impronta, come testimonianza di una perdita: un gesto che riflette sull’assenza di memoria storica e sul distacco personale.
Il disegno è dunque il risultato di una migrazione, e la sua traccia volatile e minimale resta in bianco, come l’ultimo ed unico testimone di una storia. Untitled diventa quindi il mezzo per lasciare un segno come prova della nostra esistenza».
Nastri esistenziali, filamenti elegantemente geometrici, veli impalpabili e a volte sbriluccicanti, tessono, in silenzio, questo nuovo entusiasmante percorso disegnato da Pediconi (un vero capolavoro, davvero un capolavoro) dove non solo l’artista sorprende con astuzia l’astuzia dell’apparato fotografico realizzando qualcosa di nuovo, ma apre anche una breccia poetica, un discorso autentico, una avventura linguistica eccezionale, preziosa.
Beatrice Pediconi, Z2o Sara Zanin Gallery, Roma
immagini (tutte): Beatrice Pediconi, «Nude». Installation view, Z2o Sara Zanin Gallery, Roma 2021. Photo Giorgio Benni