Pietroburgo non è una città riducibile a esigui epiteti o a poche figure illuminate come Pietro il Grande e Caterina che ne hanno edificato la storia e gli sfarzi. E nemmeno la semplice città degli Zar, la capitale dell’impero russo o la metropoli più a nord del mondo. È piuttosto una atmosfera che sfiora l’udito e invita il viaggiatore a girovagare tra le mille meraviglie che si aggrappano alle architetture del diciottesimo e del diciannovesimo secolo, tra i ponti e i canali sul delta della Neva. È la città delle notti bianche (o del sole di mezzanotte), la Venezia del Nord che ha dato i natali a molti poeti e artisti, che ha ispirato pagine memorabili di racconti in cui perdersi, in cui tuffarsi per riconoscere la Prospettiva Nevsky e il romanticismo umido di Puškin, di Baratynskij, di Cechov, di Annenskij, di Kuzmin, di Tjutcev, di Dostoevskij, di Fet e, via via, di Mandel’stam, di Cvetaeva, di Pasternak, di Achmatova, di Kusner, di Brodskij, di Achmadulina. È una città «di palazzi austeri», ha suggerito Dmitrij Sergeevič Lichačëv, «di venti forti, una città intabarrata nel suo cappotto, una città che si regge, alla lettera, sulle sue prospettive e le sue strade, per le quali il poeta si aggira indossando un severo abito nero, come personaggio classico e tradizionale»[1].
Per il suo decimo appuntamento Manifesta, la biennale europea dell’arte contemporanea senza fissa dimora, ha scelto questo paesaggio affascinante, bagnato appena dal mar Baltico, per costruire un nuovo percorso (organizzato quasi interamente negli spazi dell’Hermitage e del – recentemente restaurato – General Staff Building) legato alla storia, alla fascinazione di un luogo magico, alle «adventures of Soviet ideology in the post-Soviet period»[2] (come narra l’opera di Ilya Orlov & Natasha Kraevskaya al Razliv Museum). Accanto ad una serie di lavori storici – Mapping the Studio I (Fat Chance John Cage), 2001, di Bruce Naumann, The Institute (2002) di Louise Bourgeois e alla meravigliosa Wirtschaftswerte (Economic Values) realizzata da Joseph Beuys nel 1980, ne sono alcuni –, i progetti nati per la nuova Manifesta pongono difatti al centro della riflessione un rapporto intimo e a volte azzardato con la cultura, con l’unicità di un «gateway to the West»[3] (König) che si presenta, da sempre, aperto ad un viaggio, fisico e metaforico, tra le leggerezze della vita e le morbidezze di una natura luminosa e gelida.
Disseminato tra il cortile del Palazzo d’Inverno e il secondo piano del General Staff Building, il lavoro di Francis Alÿs rappresenta appieno questo stato mentale, questo appuntamento insperato con il destino, con questo lusinghiero e lusingante ambiente che invita a guardare da un’altezza nuova il mondo. Puntando l’indice su un simbolo del luogo, ovvero un’automobile Lada[4] della russa AutoVAZ (molto simile alla Fiat 124), Alÿs propone un progetto speciale – Lada Kopeika Project (2014), appunto – che, se da una parte rappresenta una gita, una esplorazione per le strade della Russia (Lada – la chiave per le strade della Russia era lo slogan adottato per pubblicizzarne la vendita), dall’altra plasma un tracciato che si conclude con un brioso incidente estetico nell’atrio del museo, quasi a chiudere un percorso immaginifico (e reale) nella città che si fa documento, archivio, schedario creativo. Sullo stesso piano, ma da un’angolazione differente, il lavoro di Dmitri Prigov (Installation with names of artists) pone l’accento su una serie di artisti storici e, in particolare, su un’opera centrale per tutto il XX secolo, il Quadrato nero di Malevič. Sorprende, nel viaggio alla ricerca delle opere, è anche A Speedy Day (2003), l’installazione ambientale di Vladim Fishkin che riduce ventiquattro ore in poco meno di un minuto e mostra allo spettatore uno spazio visivo brumoso e brinoso, percorso da una luce tenue tesa a rilevare e rivelare l’energia climatica del suo paese d’origine. D’un paese che dialoga, naturalmente, con la Russia del nord e con una condizione atmosferica speciale, quella di Pietroburgo, vero – e forse unico – collante di questa decima Manifesta.
[1] D. S. Lichačëv, Vospominanija, Logos, Sankt-Peterburg 1995 (trad. it. a cura di C. Zonghetti, La mia Russia, Einaudi, Torino 1999).
[2] Cfr. K. König, to cured by, MANIFESTA 10. The European Biennal of Contemporary Art, 28 june – 31 october 2014, St. Petersburg – The State Hermitage Museum, pocket guide, SIA PNB Print, Silakrogs 2014, pp. 152.[3] K. König, Brief Concept MANIFESTA 10, in «manifesta10.org», linkato l’11 novembre 2014, alle ore 14.54.
[4] Nata per decisione del Governo Sovietico che deliberò, nel 1964, la costruzione di un colossale impianto per la produzione di automobili.
Immagini
(1) The newly completed galleries at the top of the General Staff Building are due to host Manifesta next year. Photo: Svetlana Sherbakova / State Hermitage Museum (via) (2) Bruce Nauman, Mapping the Studio I (Fat Chance John Cage), 2001 7 DVD projections, 5:40:00 min Collection of Dia Art Foundation; Partial Gift, Lannan Foundation, 2013 Exhibition copy — the original is on view at Dia: Beacon, New York, USA Installation view, MANIFESTA 10, General Staff Building, State Hermitage Museum (3) Joseph Beuys, Wirtschaftswerte (Economic Values), 1980. Various implements and foodstuffs from East Germany, metal shelving, a solid beam in plaster, ca. 300 x 400 x 265 cm. Collection S.M.A.K., Gent, Belgium. Photograph: Dirk Pauwels/S.M.A.K. © Joseph Beuys, Wirtschaftswerte, c/o Pictoright Amsterdam 2014