
Una mostra a cielo aperto che raffigura cose e case, una partitura elaborata sull’urbano, un intervento nella (e sulla) città: in uno spazio polifonico e mobile che «finisce con l’assumere aspetto familiare, una cordialità quasi affettuosa, come uno di quegli oggetti che teniamo con noi, nelle nostre case, solo per consuetudine, solo perché abbiamo vissuto insieme una parte dei nostri giorni e insieme vivremo parte del nostro futuro» (Menna)[2]. Stato di grazia, il nuovo progetto di Serena Fineschi pone al centro della riflessione lo spazio della vita quotidiana, la città appunto, per generare una manovra minimale – presa a prestito da un fenomeno accidentale – che si appalesa mediante problemi di spazio, come luogo del luogo[3], come sottrazione clandestina, come gesto furtivo operato in mezzo alla strada, come un cortocircuito estetico teso a manipolare temporaneamente il tessuto civico: e perfino come défiguration, come spazio ricavato nello spazio, come calore e colore d’intimità.
Muovendo da un’intesa, da un felice patto culturale con l’Istituzione Comunale che accetta di spengere le luci del centro storico di Siena e di prender parte ad una Gesamtskulptur (ad una scultura totale), Serena Fineschi propone oggi un’opera aperta, una performance urbana che coinvolge a pieno titolo il pubblico – «il pubblico è un esaminatore, ma un esaminatore distratto»[4] ha evidenziato Benjamin in tempi non sospetti – per ritornare all’umano e all’urbano, ad un pascolo felice, ad «un soffio di vento che porta buona salute da luoghi benefici»[5]. Stato di grazia è, infatti, un sottilissimo soffio d’aria, un graffio di buio che sfiora (che turba) la mente della comunità senese e situa l’opera in un habitat vivente, in un ambiente pulsante, in una popolazione di oggetti animati e inanimati. Si tratta di un inciampo obbligato (Bonito Oliva) attraverso il quale l’artista mette sotto scacco il pubblico – ignaro dell’operazione estetica – per produrre un pungente vuoto d’ombra (Savinio)[6] che si definisce come rete di circolazione e di comunicazione, come riduzione luminosa e come estrapolazione arbitraria di visibilità, come operazione di salute pubblica e come rasoiata creativa su una priorità ufficialmente riconosciuta.
Pennello totale che dipinge di buio uno spazio civico, Stato di grazia è, dunque, «un intervento di una semplicità disarmante», suggerisce l’artista, «e che potrei davvero considerare come una personale che si sviluppa su una superficie estremamente dilatata (come quella dell’intero centro storico di una città), con il massimo numero di fruitori inconsapevoli, in un tempo brevissimo»[7].
Tra la regola e il caso, tra il programmato e lo spontaneo, Serena Fineschi offre in questo modo una fuga momentanea dall’elettricità e dalla routine quotidiana per avanzare un programma plastico che situa l’arte al centro dell’abitare[8] e sottomette lo spettatore ad una sollecitazione oftalmica spinta oltre i bordi dell’ordinarietà, in una condizione formale e formativa che declina l’heimlich in unheimlich, in una sensazione di confusione ed estraneità, in uno spaesamento[9] necessario a creare nuovi contatti linguistici tra il cittadino e la propria città.
«Questo lavoro», puntualizza Fineschi, «non ha alcuna valenza politico-sociale […], nell’origine della mia riflessione c’è, come ogni volta che approccio un nuovo lavoro, la volontà (non consapevole) di renderlo universale e lasciare che le declinazioni cambino – per mezzo di tutte le variabili possibili – a prescindere dalla mia visione»[10].
Estroflessione performativa che dilata e converte la spietata topia corporale in collaborativo giardino d’utopia, Stato di grazia si presenta, allora, come un happening collettivo notturno per mezzo del quale il nucleo urbano (un nucleo che «scricchiola e tuttavia si mantiene»)[11] diventa terreno privilegiato di una narrazione fatta di ombre e sembianze, di luce e di quello che luce non è. Ma anche, e soprattutto ambiente riflessivo, dispositivo in cui lo spazio espositivo volge lo sguardo verso la trama sociale (e non dimentichiamo che sono le case a fare un borgo, ma sono gli uomini a fare una città) per costruire una scena che si radica nella crudezza della realtà, fino a bucare lo sguardo comunitario, a spingerlo verso un’assunzione di coscienza e conoscenza, in uno stato di meraviglia, la meraviglia e la nostalgia di ritornare, in un paesaggio sin troppo consumato dall’inquinamento luminoso, a riveder – seppur momentaneamente – le stelle.
Questo testo critico ha accompagnato la performance Stato di Grazia realizzata da Serena Fineschi a Siena promossa da Brick Centro per la ricerca e la cultura contemporanea (11.10.2014)
[1] R. S. Lopez, Le città dell’Europa post-carolingia, in I problemi comuni dell’Europa postcarolingia, Atti della IIa Settimana del CISAM tenuta a Spoleto dal 29 marzo al 5 aprile 1955, Edizioni Fondazione CISAM, Spoleto 1955, pp. 551-552.
[2] F. Menna, NOTE D’ARTE. I racconti di viaggio di Heiner Dilly, in «il Mattino», 19 novembre 1965, p. 26.
[3] P. Virilio, Olafur Eliasson. An Exorbitant Art, in Olafur Eliasson. Colour Memory and Other Informal Shadows / La memoria del colore e altre ombre informali, Postmedia Books, Milano 2004, p. 61.
[4] W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am M. 1955; trad. it., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, pref. di C. Casses, con una nota di P. Pullegra, Einaudi, Torino 1966, p. 46.
[5] Platone, Le opere, vol. IV, a cura di E. Maltese, con un saggio di F. Adorno, premessa, trad. e note di U. Boltrighini, G. Caccia, E. Pegone, Newton & Compton editori, Roma 1997, p. 132.
[6] A. Savinio, Il compagno di viaggio, in Id., Tutta la vita, Bompiani, Milano 1945, p. 100.
[7] Da una lettera dell’artista a chi scrive con, in oggetto, Stato di grazia, 27/09/2014 (ore 13.28).
[8] A. Trimarco, L’arte e l’abitare, Editoriale Modo, Milano 2001.
[9] G. Berto, Freud, Heidegger. Lo spaesamento, Bompiani, Milano 1999.
[10] Da una lettera dell’artista a chi scrive, cit.
[11] H. Lefebvre, Le droit à la ville, Éditions Anthropos, Paris 1968; trad. it., Il diritto alla città, introd. di C. Bairati, Marsilio, Venezia 1970, p. 32.