Abbi cura è lo Special project #18 di Fabrizio Bellomo per il banner di Arshake, a cura di Gianpaolo Cacciottolo che lo presenta con il testo che segue.
Breve premessa necessaria
La stesura di questo testo ha inizio poche ore dopo la diramazione della notizia dei ritardi nelle consegne delle dosi di vaccino anti-covid 19 da parte di alcuni colossi della farmaceutica. La motivazione di questi ritardi sembra essere legata a problemi di produzione, più precisamente all’inadeguatezza degli impianti a produrre un numero assai elevato di dosi in tempi molto più stretti del solito. C’è bisogno di ampliamenti e adeguamenti. La catastrofe pandemica, dunque, con la sua letale imprevedibilità, ha tra le altre cose rispolverato la limitatezza dell’uomo tecnologico e la perfettibilità dei suoi sistemi; ha, per dirla con Pasolini, acuito la dissociazione, la discrepanza tra il progresso, inteso come ideale sociale e politico e lo sviluppo, considerato un fatto meramente pragmatico ed economico[1]. E, ancor di più, ha rimarcato la inevitabile esposizione a un’imponderabilità in grado in qualsiasi momento di sabotare o sovvertire ogni stato di presunto benessere, una condizione che di questi tempi si presenta nella sua peculiare caratteristica: la vulnerabilità. Un concetto che accomuna senza sconti natura, uomo e scienza.
Abbi cura…
«Sono un uomo o una macchina? Nel rapporto con le macchine tradizionali non c’era questa ambiguità. Il lavoratore è sempre estraneo alla macchina, e dunque alienato in essa. Egli mantiene la sua preziosa qualità di uomo estraneo. Invece le nuove tecnologie, le immagini, gli schermi interattivi formano con me un circuito integrato. Video, televisione, computer, rete telematica sono come lenti a contatto, protesi trasparenti che sono integrate al corpo fino a farne geneticamente parte»[2].
Seguendo la traccia indicata da Franco Bifo Berardi, lavorare oggi vuol dire, nella maggior parte dei casi, sedersi davanti a uno schermo, cliccare e digitare: in questo senso la conseguenza diretta di quella che Virilio ha definito «la bomba informatica» è stata la frantumazione di quella barriera che divideva la vita privata da quella lavorativa, l’invasione degli spazi privati e domestici, ormai totalmente colonizzati da processi produttivi che hanno nel lavoro mentale (cognitivo-intellettuale-digitale) un indispensabile innesco[3]. Sempre Virilio ha parlato di «servilità domestica» e «incarcerazione elettronica», in particolare riferendosi al «contratto a zero ore», modalità tipicamente britannica per cui il lavoratore viene liberato dal peso dell’orario fisso in uno spazio prestabilito, in cambio di un cellulare o di un computer che lo costringe tuttavia a una perenne reperibilità[4]. Nulla di più lontano dal lavoro in fabbrica, in cui spazio, funzioni e durata dei turni rappresentavano uno schema rigido di controllo ammorbidito solo dalla prospettiva del salario. Le nuove forme di assoggettamento, vestite con le ingannevoli maschere di un benessere sbrigativamente raccontato come sempre conseguente al progresso/sviluppo tecnologico, sfruttano inoltre un ormai totale, tossico e irreversibile grado di codipendenza da dispositivi elettronici ritenuti irrinunciabilmente essenziali a qualsiasi funzione sociale. Questa condizione ha contribuito, inoltre, in maniera decisiva a ingrassare spropositatamente i mercati, sia quelli di beni materiali con le attrezzature necessarie in continuo aggiornamento, sia, e soprattutto, quelli di dati e informazioni, in quell’oscuro vortice sistemico definito da Shoshana Zuboff «capitalismo della sorveglianza».
In questo scenario si muove Fabrizio Bellomo, la cui ricerca si caratterizza per approccio socio-antropologico alla relazione uomo-lavoro, e per un taglio critico che si traduce in interventi formali dagli esiti spesso diversificati. La sua pratica ha aderito a quell’evoluzione che è al tempo stesso oscillazione tra reale e virtuale, tra opera fisica tradizionale, ambientata negli spazi deputati all’arte e alla cultura, e lavoro digitale. Film (2020), ad esempio, è la sua ultima creazione: un’opera solo nominalmente cinematografica, interamente montata, ambientata, e diretta dal desktop del suo computer[5]. L’intermittenza tra le due dimensioni è protagonista di ABBI CURA DELLA MACCHINA SU CUI LAVORI È IL TUO PANE!, un’operazione del 2012 per la quale Bellomo scarica e installa oggi un nuovo aggiornamento. La premessa al lavoro del 2012 è uno dei tanti suoi episodi di esplorazione, in questo caso di una fabbrica barese abbandonata all’interno della quale ha rinvenuto una piastra metallica, una tabella educativa recante il vecchio monito per gli operai; una consuetudine novecentesca molto diffusa nelle fabbriche italiane. Bellomo amplifica il messaggio ingigantendone le dimensioni e installando nella zona industriale di Sesto San Giovanni quello che sembra a tutti gli effetti un cartellone pubblicitario. La sua è una dichiarazione di attualità di un vecchio monito che ha abbandonato il luogo chiuso e recluso della fabbrica per proiettarsi nello spazio pubblico, uno dei suoi campi d’azione preferiti, e testimoniare della persistente e rinnovata condizione umana di asservimento al lavoro e alle sue strumentazioni.
Il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale e l’affermazione oggi ancor più massiccia della società del telelavoro hanno suggerito a Bellomo l’aggiornamento dell’opera in questione, che oggi assume tratti somatici pienamente sintonizzati con i linguaggi informatici e comunicativi contemporanei. Mantenendo design e testo originari, l’artista barese trasferisce la tabella metallica in una immagine a interscambio grafico, una gif che propone l’intermittenza tra la parola «macchina» e la parola «mac» Questa intermittenza è l’interpretazione simbolica di quell’oscillazione sbilanciata tra reale e virtuale che ha trasformato la società e il genere umano; del passaggio da Ford a Google, dall’operaio industriale all’infolavoratore (Bifo). In una situazione globale in cui l’uomo si trova, e molto spesso sceglie volontariamente, di vivere sotto uno scacco costante imposto da poteri forti e tecnologia, scenario di cui Bellomo è interprete e narratore nelle alternate vesti di artista/regista/giornalista, rimbomba continuamente il thatcheriano «there is no alternative» per cui, come ricorda Mark Fisher attraverso le parole di Frederic Jameson (o Slavoj Žižek)[6], è più facile immaginare la fine del mondo che, in questo caso, la fine dei sistemi economici, politici e tecnologici che ci governano. Non ci resta, perciò, che avere cura delle macchine e dei Mac sui quali lavoriamo.
Post scriptum:
«Come la lingua di Esopo, Internet è al tempo la peggiore e la migliore delle cose»[7].