Lo spettacolo ANGELA (a strange loop), presentato in prima nazionale il 19 settembre al Teatro Argentina dal Romaeuropa Festival è per spettatori attenti e dotati di notevoli abilità percettive. La regista Susanne Kennedy e l’artista multimediale Markus Selg hanno allestito infatti un pastiche traboccante di inganni sensoriali ed enigmatiche citazioni che sfidano l’impegno di quanti siedono sulle morbide poltrone del teatro.
Si inizia con un’avvertenza scritta scorrevole proiettata, simile a quelle che solitamente si leggono nei titoli di coda dei film al cinema: «Questo spettacolo è una ricostruzione di eventi reali. Si basa su diari privati, documenti pubblici e centinaia di ore di interviste registrate» seguita da citazioni alchemiche in perfetto stile new age che danno indicazioni sulle probabilità di una trasformazione alchemica tripartita (Nigredo, Albedo e Rubedo): queste ultime sembrano alludere a un ipotetico viaggio verso l’illuminazione della protagonista, ma la certezza di assistere a una narrazione veritiera viene immediatamente disillusa dall’indeterminazione dell’avvertenza «per quanto ne so», che chiude l’avviso in perfetto stile colloquiale whatsapp.
La banalizzazione del linguaggio trasformato dalle tecnologie costituisce un insieme di indicazioni del tragitto spazio-temporale urbano e domestico in loop di questo spettacolo: dalle scritte scorrevoli colorate che illuminano la scena, al codice della messaggistica dei social network, al grande graffito EXIT ripetuto all’infinito su una parete, agli interventi su uno schermo di una specie di avatar di cane Tamagotchi, evoluzione postmoderna di un inascoltato grillo parlante.
Lo spazio nel quale si svolge la vita della protagonista Angela – vestita di immancabile felpa con cappuccio, mutande e collant – giovane influencer in stato di reiterato malessere interpretata da Ixchel Mendoza Hernández, è un curioso mixage tra la misera realtà di pareti in cemento a vista, due porte giallo fluo, un materasso a terra con piumino Ikea sempre sfatto, uno schermo appeso sull’altro lato e il fondale di una casa bella e impossibile.
Quest’ultima è costituita da una sola parete di sfondo tanto ben disegnata in 3D da sembrare vera, se non fosse che un ipnotico ventilatore a soffitto, sempre in movimento, tradisce la finzione. Il ventilatore, poi, agisce come una giostrina sonora contro la quale lo spettatore conduce un corpo a corpo per non assopirsi, anestetizzato dalle banali conversazioni che rispecchiano le relazioni tra i personaggi: difficile accorgersi, quindi, con la sovra-titolazione che traduce i dialoghi, che le voci degli attori non sono live, ma pre-registrate. Ah, ah, chiosano gli attori in perfetto linguaggio social. Ah, commentano stupiti gli spettatori avviliti dell’ultima fila che, dopo lo spettacolo, leggono il programma di sala che rivela loro, finalmente, le istruzioni per l’uso.
Applaudono poco e si domandano anche il perché della sensazione di inebetimento e di malessere che provano alla fine di questo loop. Forse la sofferenza li contagia ancora, proprio come quel virus che li ha rinchiusi per due anni dentro le pareti delle loro case, senza vie d’uscita, proprio come Angela.
Susanne Kennedy, ANGELA (A strange loop), © Julian Roder, Teatro Argentina, Romaeuropa Festival, 20.09.2023
immagini (all) Susanne Kennedy, ANGELA (A strange loop), © Julian Roder, Teatro Argentina, Romaeuropa Festival, 20.09.2023