Alla Galleria Nazionale di Roma è in mostra Un presente indicativo, uno dei tanti presenti esistenti nel mondo dell’arte, uno dei numerosi (tendenti all’infinito) spazio-tempo che si avviluppa agli altri, li cela e li scopre, e così gli altri con lui, in un magmatico e serpentino uroboro di urobori, in quella storia dell’arte complessa e rizomatica, tanto dominata dai vari ed eventuali Sistemi dell’arte eppure per sua natura fluida e libera. In questo caso, nella mostra in questione, curata da Antonello Tolve, ci troviamo in uno spazio-tempo molto specifico, carico di questioni ardite dalle forti contraddizioni esistenziali: i 14 artisti in mostra sono infatti tutti nati negli anni Sessanta a Roma. Genius loci e Zeitgeist coordinano la sessantina di opere in mostra in un labirinto eterodosso, strabordante di punti focali e flash percettivi, in quello che appare come un incontro di sensibilità simili eppure diversissime, sensibilità che hanno percorso i decenni a cavallo del nuovo millennio, con tutti i suoi stravolgimenti (dall’espansione inimmaginabile dello spazio digitale alla presunta fine della Storia con tutto ciò che ne è conseguito), in maniera matura e significativa, ponendo – anche – le basi per gli sviluppi artistici delle generazioni successive.
Posizioni e prospettive dell’arte contemporanea a Roma recita il sottotitolo della mostra, e visitarla significa rimbalzare da un supporto artistico all’altro, da una metodologia espressiva all’altra, da un senso all’altro. Ognuna delle opere è un mondo, in un cosmo di questioni, spesso profonde ed esistenziali, a volte criptiche, altre fintamente superficiali, altre ancora barocche ed essenziali contemporaneamente, con le loro procedure operative “camaleontiche, babeliche, versatili”, come dice il curatore, che infondo sono le caratteristiche eventuali dell’esistenza.
Ed ecco che, quindi, ci troviamo immersi in relazioni inaspettate eppure sbalorditive: le opere di Paolo Canevari, classiche ed eleganti, che riecheggiano un passato più o meno lontano, politico e culturale, nell’accezione più ampia possibile, con l’enorme modellino di San Pietro composto esclusivamente da carte da gioco del Jolly di Adrian Tranquilli, a dare al simbolo culturale e di potere spirituale e temporale una precarietà materiale e concettuale, tinta di Pop.
Le sfere di Roberto Pietrosanti, rudi eppure raffinate, sospese come totem industriali, con le barre scultoree di Stanislao Di Giugno, metronomie dello spazio in cui emerge un equilibrio alienante tra esse, il muro che le regge e noi.
Gli ambienti sensibili di Gea Casolaro, siano essi specchi deformati che rimandano allo spazio analogicodigitale, o mappe e cannocchiali che si fanno cosmo (di rimandi), accettando il nostro corpo in uno stabile gioco delle parti, con quelli sinestetici di Bruna Esposito, caotici e raffinati eppure aspri e tribali.
O ancora l’ambiente impercettibile composto da vetro, luce e spazio architettonico, che in presa diretta proietta la realtà tra filtri trasparenti e angoli complici della demiurgia percettiva di Andrea Aquilanti con la tanto concreta quanto straniante scultura canina di Maurizio Savini, bisognosa per sua natura di spazio libero attorno, per amplificare i suoi elementi in un drammatico senso dell’esistenza.
Per quanto riguarda la pittura ci troviamo fondamentalmente nel mezzo di quattro voci sparse tra le sale: la pittura materica e figurativa, spesso rimandante ad elementi della cultura popolare, a volte nei soggetti, a volte in un certo tipo di atmosfera, di Andrea Salvino, quella neurale e allo stesso tempo cosmica delle grandi tele di Alberto Di Fabio; le enigmatiche e ipnotiche tele di Gioacchino Pontrelli; e le opere organiche di Marco Colazzo, raffiguranti elementi vegetali in atmosfere intime e fosche, palustri nell’essenza.
Infine, in questo labirinto non poteva mancare la fotografia, con le sperimentazioni di Marina Paris che abbracciano il senso della stessa e dei suoi supporti e il bianco e nero delle opere di Giuseppe Petroniro, profondamente concettuali e sempre parte di qualcosa di più ampio: la fotografia che si fa concetto per diventare scultura materiale ed essenziale.
Ognuno di questi artisti, come detto, apre un universo di questioni, ma quello che tutte insieme riecheggiano, in una realtà così sfaldata e stravagante come quella che stiamo vivendo negli ultimi anni, volendone fare una sinossi, è che la fallacia hegeliana del razionale in quanto reale (e viceversa) non trova più senso neppure per ipotesi. Tutte le opere in mostra, finanche le più equilibrate e strutturate, hanno una componente caotica non indifferente e non trascurabile, ma allo stesso tempo mantengono una via di fuga, non sprofondano mai nel nichilismo né sfidano l’inemendabilità delle cose, anche quando la loro essenza è postmoderna per natura e per stato.
Roma è una città complessa, lo è sempre stata, così come lo è la generazione nata negli anni Sessanta, bombardata più di altre dall’evoluzione in potenza della tecnologia e vissuta per metà in una realtà bipolare e per l’altra metà in una globalizzata e illusoriamente monopolare, ed ora sull’orlo dell’ennesimo stravolgimento. Tra gli infiniti presenti indicativi dell’arte di certo questo spazio-tempo ha tantissimo da dire.
Un presente indicativo, a cura di Antonello Tolve, Galleria Nazionale, Roma, 09.02 – 02.05.2023
Artisti: Andrea Aquilanti, Paolo Canevari, Gea Casolaro, Marco Colazzo, Bruna Esposito, Alberto Di Fabio, Stanislao Di Giugno, Marina Paris, Giuseppe Pietroniro, Roberto Pietrosanti, Gioacchino Pontrelli, Andrea Salvino, Maurizio Savini, Adrian Tranquilli
Immagini: (cover 1) Adrian Tranquilli, «All is Violent, All is Bright», courtesy Collezione Piero Raruffini, photo Adriano Mura (2) Paolo Canevari, Colonna Barocca, courtesy Studio Stefania Miscetti, photo Adriano Mura (3) Bruna Esposito, «Allegro non troppo», courtesy Studio Stefania Miscetti, Roma, photo Adriano Mura (4) Marina Paris, Archivio di Stato (Sant’Ivo), courtesy Galleria Nazionale, photo Adriano Mura (5) Un Presente Indicativo, installation view, Galleria Nazionale d’arte Moderna e Contemporanea, Roma, photo Adriano Mura