Il Minotauro e’ la figura mitologica che ha ispirato il racconto omonimo di Dürrenmatt: un essere mostruoso racchiuso in un labirinto di specchi, agitato dal dubbio di non sapere se essere, o essere solo un’immagine riflessa. E’ la difficoltà di comprendersi e insieme il traumatico incontro dell’essere con la sua alterità, il tentativo impossibile di conoscere se stessi attraverso un altro Io e di essere molteplici invece che uno. E’ una continua ricerca della verità, quella del Minotauro, insondabile, se non a riconferma di una realtà mistificata. Lo specchio verrà rotto da Teseo, strappando via l’illusione che ne segue.
«Da quella gioia infantile scaturì un po’ per volta una ritmica danza dell’essere con le sue immagini che erano in parte specularmente inverse e in parte, quali immagini d’immagini, identiche all’essere, e poi ancora, quali immagini di immagini di immagini, specularmente inverse, sino a perdersi nell’infinito.
L’essere danzò per il labirinto, attraverso il mondo delle sue immagini, danzò come un bimbo mostruoso, danzò come un mostruoso padre di se stesso, danzò come un dio mostruoso attraverso l’universo delle sue immagini. D’un tratto però interruppe la danza, s’irrigidì, si accovacciò, fissò con occhi attenti, e con lui s’accovacciarono e scrutarono le sue immagini: danzando, l’essere aveva scorto, fra le immagini danzanti, degli esseri che non danzavano e che non erano immagini che gli ubbidivano.
[…]
Arretrò, e così fece la sua immagine, e un po’ per volta scoprì di essere di fronte a se stesso. Cercò di fuggire ma ovunque si volgesse si trovava sempre di fronte a se stesso, era murato da se stesso, era ovunque se stesso, ininterrottamente se stesso, rispecchiato all’infinito nel labirinto.» (Dürrenmatt, Il Minotauro)
Forse la sola realtà sta nel terzo elemento prodotto dall’incontro fra un io e un contesto di specchi e riflessi. Le immagini che scaturiscono mettono alla prova persino la relatività della verità e insieme la descrivono nella sua pluralità, così come uno scrittore che dall’infinita copiosità degli eventi sensibili, ne focalizza uno, che possa essere paradigma di quest’abbondanza sconfinata.
Amiamo Anish Kapoor, perché ci proietta nel mistero, interroga i nostri sensi ed estende le nostre facoltà percettive. Crea nuove immagini e possibilità, senza darci nessuna soluzione. La verità non esiste e se esiste e’ circoscritta, varia e molteplice.
In uno dei romanzi più enciclopedici che sia mai stato scritto Bouvard et Pecuchet, Flaubert giunge ad equiparare enciclopedia e nulla. Ogni teoria appresa dai due ricercatori, viene immediatamente smentita nel libro successivo, così da affermare la fuggevolezza del sapere e quindi dell’esattezza. Come dice Brecht in una famosa poesia: «Tante domande, tante risposte».
Amiamo Kapoor anche per la storia dell’arte e della filosofia che ci fa rileggere a ritroso.
Le macchine celibi di Duchamp e l’origine del mondo di Courbet, il relativismo di Einstein e il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer.
Lo amiamo perché non crea immagini belle, ma genera quesiti filosofici.
John Langshaw Austin nel 1955 affermò il potere performativo di certe opere d’arte, che è quello di produrre la realtà e di plasmare la lettura che ne diamo. Sono le parole stesse, ovvero il modo di esprimere un pensiero, a costruire la nostra esperienza delle cose e del mondo[1]. Così ci sono opere performative, che agiscono nel qui ed ora, il cui carattere esperienziale previsto si inserisce nella pratica artistica, divenendone un elemento. Quelle di Mr. Kapoor, ad esempio.
Descension. Entrare in un ex-teatro, come la Galleria Continua di San Giminiano, e venire assorbiti da un vortice irrefrenabile è come essere attori e spettatori, rapiti da forze di recitazione superiori, avvolti da circostanze in un ritmo ciclico e inafferrabile. Descension è un “non-oggetto”, materia vuota, sfumata nel contesto. Il polo opposto ad Ascension, che l’artista forse concepisce come un continuum, conoscendo la sua tendenza a capovolgere sopra e sotto, come in una capriola.
Nei lavori di Kapoor, si entra in un tempo senza spazio e quindi si arresta ogni scorrere, interessato come e’ a ciò che l’oggetto non è ancora. Descension, dall’estate del 2015, è presente anche a Versailles, a confronto con le fontane del re sole.
Cosa c’è all’origine? Forse una forma geometrica: quando si realizza un oggetto perfettamente geometrico, si crea una visione eterna e completa. Kapoor crea forme in cui ripensa il mondo e la nostra percezione di esso. Dirty Corner ribalta la terra, porta la terra sopra.
Nel 1971 Morris affermava: «Voglio fornire una situazione dove le persone possono diventare più consapevoli di sé e della propria esperienza, piuttosto che più consapevoli di una qualche versione della mia esperienza», indicando il passaggio cruciale dall’intenzione dell’artista all’esperienza estetica dello spettatore[2].
Kapoor ci insegna a fare il vuoto e ripartire da zero. Beckett ha realizzato drammi straordinari, riducendo al minimo elementi visivi azioni linguaggio e volontà dei suoi personaggi.
Amiamo Kapor perché nel non aggiungere immagini ci crea spaesamento, che e’ lo stesso motivo per cui non lo sopportiamo, talvolta: nei suoi tunnel, nei suoi vortici percettivi, nei semi-riflessi del suo ego a rapporto con i nostri.
Immagini (cover – 1) Anish Kapoor, «Dirty Corner», 2011-2015, Misxed media, Dimensions variable, Courtesy Lisson Gallery, Galleria Massimo Minini, Galleria Continua, Kamel Mennour and Kapoor Studio, Photo by Fabrice Seixas / Tadzio (2) Anish Kapoor, «Sky Mirror», 2013, Stainless steel, Diametre 5.5m,Courtesy Kapoor Studio, Kamel Mennour and Lisson Gallery, Photo by Fabrice Seixas (3) Anish Kapoor, «C-Curve», 2007, Courtesy Kapoor Studio, Kamel Mennour e Lisson Gallery, Photo by Tadzio © Anish Kapoor 2014 Anish Kapoor (4) «Descension», exhibition view, GALLERIA CONTINUA, San Gimignano, 2015, Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano, Beijing, Les Moulins, Photo by Ela Bialkowska, OKNO STUDIO (5) Anish Kapoor, «C-Curve», 2007, Kapoor Studio, Kamel Mennour and Lisson Gallery, Photo by Fabrice Seixas (6) Anish Kapoor, «Untitled», 2014, Acciaio inossidabile , 30 x 40 x 40 cm, Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano, Pechino / Les Moulins, Photo by Ela Bialkowska, OKNO STUDIO
[1] John Langshaw Austin, How to Do Things with Words: The William James Lectures Delivered at Harvard University in 1955, ed. J. O. Urmson (Oxford: Clarendon, 1962.
[2] Jon Bird, “Minding the Body: Robert Morris’s 1971 Tate Gallery Retrospective, in Rewriting Conceptual Art, ed. Michael Newman and Jon Bird (London: Reaktion, 1999), 97.