Arshake prende spunto dagli interventi installativi time-based di Chiara Mu a Roma presso AlbumArte, per aprire una discussione a più voci su presentazione ed acquisizione di opere effimere. Questa è la prima di una serie.
Mercoledi 28 gennaio, 2015 si incontravano ad Albumarte alcune persone invitate da te, Chiara, e dalla curatrice Maria Rosa Sossai, provenienti da diversi ambiti professionali nel mondo dell’arte (critici, collezionisti, dirigenti museali, galleristi, direttori di riviste di giornali), tutti con ricchi di una certa esperienza nell’ambito della performance art, protagonista di una discussione aperta a tutto il pubblico partecipante. Al centro del dibattito, i paradossi che si vengono a creare quando opere che vivono «nel» e «con» il tempo [e lo spazio] sono proposte come «collezionabili», in particolare quando spogliate anche di oggetti fetish (o documentazioni fotografiche o video), memoria di un’azione spesso elevata ad opera stessa. Questo incontro è stato preambolo del progetto vero e proprio From Here to Eternity (Albumarte.18 .02 – 01.30.2015), momento di promozione di una una campagna di CrowdFunding anche questa parte di una stimolante provocazione nella proposta di vendere un certo tempo con l’artista come merce di scambio. Qualche momento prima di raggiungervi per assistere a questo incontro, concludevo la lettura di Re-collection. Art, New Media, and Social Memory (curato da J.Ippolito e R.Reinhart per la collana di Leonardo) ultimo saggio sulla conservazione dei new media, argomento di mio interesse e in realtà molto vasto se spogliato dell’auto-referenzialità che il riferimento del termine al mezzo può suggerire. Mi sono resa conto quanto vicini siano gli argomenti quando si parla di opere di natura effimera. Mi piacerebbe iniziare da tutta questa operazione – realizzata e in corso – ad Albumarte, per parlare con te e con Pietro, che ha una conoscenza e un esperienza solida in questo ambito, e proseguire la conversazione in una forma di esplorazione e di documentazione orale, come tu stessa, Chiara, hai sostenuto quella sera dell’incontro nell’esprimere le tue posizioni riguardo alla conservazione dei lavori. Mi piacerebbe anche intrecciare la memoria di questo progetto, catturandone i momenti salienti, con esperienze di altri ambiti, come appunto quello della media art, o di altri operativi nella stessa dimensione liquida dello spazio e del tempo. Ma vorrei lasciare ora a voi la parola e grazie per aver accettato questa strana formula di intervista che potrebbe proseguire in puntate successive.
Pietro Gaglianò: Prima di iniziare vorrei sottolineare che Chiara Mu riesce a sintetizzare il proprio pensiero, con una linea teorica così consapevole, senza diventare in alcun modo didascalica rispetto alle forme della sua ricerca: le sue performance mantengono una dimensione simbolica e aprono percorsi di visione e di conoscenza autonomi rispetto alla sua argomentazione. Credo che sia dovuto tanto alla sua autenticità come artista, alla qualità specifica del suo lavoro, quanto alla sua formazione londinese che abitua al confronto e verifiche continue. E questo è anche indicativo di una visibile maturità rispetto all’arena teorica e critica della Performance, molto emancipato (oltre il rigore delle definizioni) e poco approssimato (senza le grossolane interpretazioni mediterranee dell’espressione della performance).
Il lavoro di Chiara, e la discussione che lei stessa anima attorno al suo lavoro, apre tra i molti interrogativi quello che da tempo mi pongo circa l’ossessione del visibile che caratterizza la cultura nordatlantica. Non è più così importante la tangibilità (negli ultimi trent’anni una capillare campagna di marketing ha smussato su molti fronti la necessità del possesso fisico, sostituendolo con l’appagamento per il possesso dell’icona, del logo e di altri idoli), ma rimane indispensabile la riconoscibilità attraverso la vista: il visibile continua a essere pegno dell’esistenza, certifica la realtà e, soprattutto, garantisce la trasferibilità (quindi l’appartenenza alla sfera del commerciabile). Ecco, la natura, potremmo dire, originaria e scandalosa della performance, si muove attorno a dinamiche che impegnano altre facoltà oltre quella del visibile – che tra tutte le percezioni rimane quella più domabile e addomesticata agli imperativi dell’abitudine e del consueto. Lo spazio di relazione aperto dalla Performance impone una partecipazione, oltre tutti gli slogan e le strumentalizzazioni di questo termine, che non permette lo sguardo superficiale e che carica il passaggio attraverso l’opera di valori non reificabili, non riducibili al piano del visivo. Il pubblico non è sempre pronto, e oggi forse lo è ancora meno, considerando l’interattività eterodiretta ha preso il posto della reattività vera e propria, della capacità di rielaborare la realtà con un proprio codice. Mi chiedo se Chiara abbia cercato di mettere in campo proprio una relazione di questo tipo: vanno in questa direzione le azioni che presenti in questo progetto?
Chiara Mu: Di sicuro camminano in questa direzione e spedite, direi!!! Condivido molto di cio’ che hai sottolineato Pietro, rispetto l’ossessione del visibile e di come questo determini ancora oggi una reificazione del performativo attraverso la produzione di immagini documentative, con il solito annoso “malinteso” per cui poi queste diventano a pieno titolo la vera opera da vendere e far circolare (aumentando o meno le quotazioni di mercato di artisti impegnati con la performance art..ma queste sono dinamiche note). Lo scandalo che cerco di abitare e’ proprio quello di occuparmi di performance in altra chiave. Mi interessa proporre una modalita’ relazionale che, come ben sottolinei, impone di fare esperienza dell’opera usando oltre la vista tutto quello che si ha a disposizione per conoscere una circostanza ed appropriarsene in ogni modo possibile…dunque l’ascolto partecipe, l’odorato, toccare e farsi toccare dall’altro da se’, l’apertura del proprio tempo a quello dell’opera, concepire che il corpo prenda la forma dello spazio anche solo per pochi istanti…accettare dunque una permeabilita’ che definisce in pieno l’esperienza estetica che viene proposta.
Le azioni presenti in «From Here to Eternity» ad esempio offrono ognuna una modificazione specifica della postura del visitatore e non credo nemmeno ci si renda conto di questo all’inizio, è una consapevolezza che emerge successivamente, a termine del percorso di esplorazione dello spazio. Ho studiato queste azioni al fine di essere conseguente alla ricerca che porto avanti nella mia pratica site-specific, ovvero volendo esplorare e definire in ogni contesto una relazione fisica ed emozionale tra corpo e spazio, ragionando in questo caso su come il nostro corpo sia oggettivamente la prima architettura di cui abbiamo conoscenza e che dobbiamo amministrare quotidianamente.
Ritornando poi brevemente sull’ossessione del visibile, mi è stato raccontato durante l’opening di alcuni visitatori (più o meno noti nel mondo dell’arte romano) che, una volta fatta la fila per entrare, se ne sono poi andati abbastanza velocemente, forse infastiditi dal non comprendere cosa stesse accadendo nello spazio. Ho cercato pienamente questo «conflitto», non volendo alcun foglio o piantina di sala; sono consapevole di aver portato ad AlbumArte una mostra null’affatto semplice da questo punto di vista: non c’era niente da vedere, non quadri, non proiezioni, non oggetti…solo punti luce nella penombra diffusa e gente sparsa. Lo ricordi Elena? Ad uno sguardo piu’ attento e meno conscio dello scorrere del tempo, ci si sarebbe resi conto che gradualmente si veniva «scelti» e presi da altre persone, intente a portarti in un discorso riservato a due, personale e dialogante, su alcuni elementi dello spazio presente. Ho voluto, fortemente voluto, selezionare il mio pubblico nella direzione di abbracciare visitatori disponibili ad uno sforzo maggiore, mettendo in crisi la loro proverbiale passivita’ per poter godere successivamente di uno scambio intenso, vero, «prensivo» da entrambe le parti.
Elena G. Rossi: Cara Chiara, si ricordo benissimo quell’esperienza. E’ molto facile essere irritati se qualcosa non ti coglie nell’immediatezza. Così è per me il più delle volte che visito mostre d’arte, rispetto a performance o a video che magari non ho la pazienza di vedere fino in fondo. In questo caso, però, e nonostante io sia venuta in uno stato di stanchezza che mi rendeva difficile pensare alla spesa di qualsiasi energia nel contatto con gli altri, qualcosa mi ha catturato da subito. E’ stato come abituare l’occhio alla luce del buio. Bastava concentrarsi un momento per cogliere un qualcosa di strano nell’aria e, a quel punto, percepire l’intimità creata in ogni angolo, tante piccole isole, bolle di energia dentro cui sostare due a due. Quella sera non sono stata scelta. Ne sono stata quasi sollevata perché ogni contatto comporta energia e quella sera non ne avevo affatto. Ho potuto respirare l’atmosfera, agire come voyeur, assistere al desiderio di essere scelti per essere catturati nelle bolle. Ora sono curiosissima e pronta a provare l’esperienza la settimana che verrà. Spero, per allora, di proseguire la nostra conversazione. Sarebbe molto bello ripartire da tematiche relative all’acquisizione di opere performative (o meglio, effimere, dato che Chiara, mi hai appena detto che più che come performance preferisci definire i tuoi lavori come «interventi site-specific» e, aggiungerei, research based, esternazioni esperienziali di una ricerca pura.
Pietro Gaglianò: Per andare sul tema delle acquisizioni vorrei parlare di una condizione importante che il pubblico assume in questo quadro di azione, a partire da quella volontà di far parte del processo cui ti riferisci. Ho visualizzato nella tua descrizione il principio delle «macchine desideranti» che Gilles Deleuze riconosce come espressione positiva e produttiva negli individui animati, appunto, da un’energia propositiva. Lo spazio della performance produce questa stessa forma di sovrapposizione tra chi agisce e chi viene agito, nel senso che subisce una sollecitazione che attiva il desiderio. Questo può portarci all’origine della Performance, e può aprire la domanda sulle garanzie che qualsiasi forma di acquisizione può dare rispetto alla natura dinamica della materia di cui stiamo parlando. Oltre all’interrogativo sul come conservarla c’è un quesito più importante che riguarda il dove: sarebbe davvero possibile l’esercizio di questo flusso desiderante in una condizione diversa da quella pubblica o semi-pubblica? (…to be continued)
Chiara Mu, «From Here to Eternity», a cura di Maria Rosa Sossai, AlbumArte, Roma, 18.02 – 1.04.2015.
Immagini (tutte) Chiara Mu, From Here to Eternity AlbumArte, intervento site-specific realizzato per il giorno dell’opening del progetto (18.02.2015)