La tecnologia si è insinuata in tutti i campi del sapere e del fare. In alcuni casi è diventata veicolo di potere e di consumo, in altri è stata adottata come strumento di implementazione qualitativa, come è successo nella danza, settore in cui coreografi e performer sono stati stimolati dalle potenzialità tecnologiche fin dagli anni ’70. «L’introduzione dei dispositivi tecnologici in scena, dal video alla motion capture, ha ridefinito il pensiero del corpo e la composizione del movimento». E’ l’impatto della tecnologia sulla percezione del corpo, prima di ogni altra cosa, l’incipit con cui il Prof. Enrico Pitozzi ha introdotto la sua lezione pubblica al Museo MAXXI di Roma (08.02.2014) Coreografie e dispositivi tecnologici, nell’ambito di «Storie della danza contemporanea», ideato da Carolina Italiano e curato da Anna Lea Antolini.
La relazione e contaminazione tra tecnologia, danza e mente, come dinamica capace di ampliare la consapevolezza della percezione corporea è alla base di ogni tipo di evoluzione e rivoluzione coreografica, nel disegno di ogni singolo movimento e nel suo inserirsi e interagire con la scena. Attorno a questo ruotano i molteplici spunti interdisciplinari del discorso. Interazione tra tecnologia e immaginazione, con il conseguente coinvolgimento di altre discipline scientifiche -come la neuro-fisiologia – guidano il racconto, anche, e con particolare forza, quando ci si addentra nell’analisi più specifica di software, come Life Forms, Motion Capture e Isadora, trattate qui come «forme del pensiero».
La possibilità di una visione esterna delle cose, il poter intervenire sul proprio avatar, poterlo posizionare e far interagire con lo spazio riprodotto al computer, sono, per esempio, alcune funzioni del programma Life Forms di cui il coreografo Merce Cunningham ne aveva anticipato tutte le potenzialità. E’ un analisi esterna del movimento attraverso Life forms, ad aver ampliato la conoscenza e consapevolezza del proprio corpo e ad averlo guidato verso un impiego coerente delle braccia, prima utilizzate unicamente per motivi di equilibrio.
Life forms, in uso dalla fine degli anni ’80, permette, quindi, una visione oggettiva delle cose e concede l’intervento simultaneo sul singolo movimento nel suo interagire con la coreografia di scena. Accanto a questo, e sviluppato in un momento successivo, il sistema di motion capture, cattura e rende visibile il corpo, disegnato «dal» e «nel »movimento. Dei sensori applicati sui danzatori catturano il movimento e lo trasmettono ad un software che lo restituisce alla vista nella forma di un disegno dinamico; la presenza del danzatore è completata, per vie empatiche, dalla percezione di chi guarda. Poi, quando il corpo in movimento può essere riprodotto sulla scena in un tempo differito e in altra scala, allora danzatori e coreografia interagiscono in uno scambio reciproco.
Pitozzi ci insegna come sia il progresso scientifico, con la sua capacità sempre più affinata di vedere attraverso le cose, di catturarle nella forma più minuta in cui si manifesta l’universo, a stimolare il desiderio di raggiungere l’invisibile. Quello stesso impulso aveva portato lo scienziato e fisiologo Étienne-Jules Marey (1830-1904) a studiare il processo cronografico, per Pitozzi chiaro antecedente del motion capture.
Si ripercorrono così una serie di esempi di produzioni coreografiche realizzate nella dimensione tecnologica, da Merce Cunningham a William Forsythe, da Wayne McGregor a Ginette Laurin, per ricostruire la storia di una ricerca che si esprime nel desiderio di andare oltre le cose, o meglio, di riuscire a vederle nel loro esistere e interagire «nella materia». L’invisibile si rivela nella sua presenza materica, il movimento è corpo e materia tanto quanto lo è il digitale, dove l’interfaccia, proprio come indica il termine utilizzato in fisica, è il momento della trasformazione da uno stato ad un altro. Negli esperimenti più recenti, sempre più spesso, il corpo sparisce interamente e lascia la scena al volume di aria occupato dal movimento che diventa «danza di particelle».
Ecco come tutto torna nella materia, tra il suo essere visibile e invisibile, nello stare dentro e fuori delle cose, nel suo manifestarsi in un gioco di pieni e di vuoti; la comprensione di tutto risiede nelle potenzialità nascoste della mente che la tecnologia ha il potere tanto di mantenere assopite, quanto di stimolare ai limiti del possibile. Ecco perché questo tema trattato in modo così trasversale trascende dalla specificità della danza per espandersi in tutte le discipline, laddove queste confluiscono con la vita, nel suo originarsi e ritornare nel potere nascosto della mente e dell’immaginazione, liberata in tutto ciò che la risveglia, possibilmente anche un dispositivo tecnologico.
Enrico Pitozzi insegna «forme della scena multimediale» presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna. E’ stato visiting Professor presso la Faculté des Ars de L’Unversité du Québec à Montréal e visiting lecturer presso l’Université Sorbonne Nouvelle – Paris III nel programma Europeo Teaching Staff Training 2013. Tra i suoi numerosi scritti, è autore di Corpografie. Percezione, presenza, dispositivi tecnologici, in M. Borgherini, E. Garbin, Modelli dell’essere. Impronte di corpi, luoghi, architetture, Venezia, Marisilio, 2011. Il suo lavoro monografico, Sismografie delle presenza. Corpo, scena, dispositivi tecnologici è in corso di pubblicazione per la casa editrice Casa Uscher, Firenze (autunno 2014). La lezione Coreografie e dispositivi tecnologici, si è tenuta nell’auditorium del Museo MAXXI, Sabato 8 Febbraio, 2014, nell’ambito di «Storie della Danza Contemporanea», un progetto rivolto alla divulgazione della danza, ideato da Carolina Italiano, a cura di Anna Lea Antonlini e organizzato da Giulia Pedace. Prossimi appuntamenti: 8.03.2014: Danza, Paesaggi, Ecosistemi (1990 – 2013) con Fabio Acca e 12.04.2014, La Danza tra memoria, documentazione e video danza. Viaggio nell’archivio Cro.me con Enrico Coffetti e Francesca Pedroni. MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Via Guido Reni, 4A, Roma.
Immagini
(homepage cover) Still from digital projection by Shelley Eshkar and Paul Kaiser for Merce Cunningham’s Biped, 1999. Courtesy of OpenEndedGroup; (1) William Forsythe, Improvisation technologies, 1999-2003. Photocredits: Forsythe Company; (2) kondition pluriel, schème II, 2002, Photos: Martin Kusch. Courtesy kondition pluriel; (3) Dumb Type, Voyage, 2002, photos by Kazuo Fukunaga. Courtesy Epidemic.