Arshake è lieta di pubblicare e rilanciare il testo di Giovanni Festa che accompagna l’installazione Ecce Homo di Cristian Rizzuti nella spettacolare cornice degli Archivi della Fondazione del Banco di Napoli.
Il soffermarsi, da parte degli artisti di ogni epoca, sulla figura del Cristo morto implica da un lato indugiare sulla scandalosa umanità di Gesù e dall’altro sottolineare come anche il momento più buio sia, in realtà, un rituale passaggio: la figura distesa sembra sempre sul punto di attendere il soffio, la positiva scossa soteriologica che la rianimi, che la riporti in vita.
Ecce Homo di Cristian Rizzuti è un’opera tesa dialetticamente come un arco fra passato (la storia dell’arte, l’iconografia del corpo riverso del Salvatore, la materia che diventa aura, traccia luminosa) e futuro (le tecnica di incisione laser del supporto, la scelta del supporto stesso -il plexiglas-, i led e l’utilizzo della luce come materia tangibile che crea e definisce la forma, la tridimensionalità insieme tangibile e del tutto apparente). Nello stesso tempo passato e futuro formano un’immagine politicamente presente (e quindi anche scandalosa, se intendiamo per scandalo quello che accade quando l’iconografia sacra adotta le forme del presente, se ne appropria e nello stesso tempo rimane immersa e contaminata da esse).
La genealogia di questo Cristo riverso, immerso nel parallelepipedo che nello stesso tempo lo imprigiona e gli dà forma, è evidente: da un lato la prospettiva di scorcio del Cristo Morto di Mantegna, che trascina lo spettatore davanti ad una figura che non offre punti sicuri d’appoggio e sembra franargli davanti o comunque muovergli contro, come una prora, e poi il Cristo velato di Sanmartino, il cui panno pateticamente aderente viene qui sostituito dalla luce che assume l’intensità di un’energia spirituale. Scolpire la luce significa forse tentare innanzitutto questo, fare una radiografia del principio vitale e cercare, scomponendo il corpo, di mostrare i filamenti dell’anima che sono, nello stesso tempo, il corpo tangibile e la sua mancanza: si intrecciano così passato e futuro, immagine cultuale e immagine tecnologica.
Immagine cultuale: si tratta di rendere presente attraverso l’assenza: vedere l’anima attraverso il corpo significa fare esperienza della sua aura. Curioso e prestigioso concetto questo! Il termine, greco, significa alito, soffio, brezza; diventa poi la possibilità, da parte di un fenomeno, di essere dotato della capacità di guardare colui che lo osserva e ricambiare lo sguardo: e in effetti non è difficile pensare, girando intorno ad Ecce Homo, che questo corpo di luce ci stia guardando. Diventa poi, in Benjamin, quel singolare intreccio di spazio tempo definito come “l’apparizione unica di una lontananza per quanto vicina possa essere”. Essa è legata quindi ad una dimensione cultuale dell’immagine. Ecce Homo trasporta i caratteri cultuali dell’opera d’arte (unicità, autenticità, originalità, tramandabilità, opera contemplata in situ dal fruitore) nell’epoca terminale della riproducibilità tecnica, dello spettacolo e dei simulacri; e nello stesso tempo, fa di una delle immagini cultuali per eccellenza, quella del Cristo disteso, un simulacro. Inoltre Ecce Homo, in quanto emanazione auratica, si impadronisce di noi, coglie all’amo il nostro sguardo mentre lo osserviamo.
Immagine tecnologica: la figura, è bene tenerlo a mente, si trova in una teca, ossia in una specie di cripta-capsula spazio temporale. E questo fa venire in mente una figura immersa nella criogenesi, curiosa tecnologia basata sulla fede che prevede che il corpo venga addormentato per essere poi risvegliato nel futuro in un momento labirintico di tempo sospeso; DeLillo, nel suo romanzo basato sull’argomento, ci invita a pensare alla criogenesi come una condizione metafisica di vita sopravvivente, in sospeso, dove corpi sistemati dentro sarcofagi-utero trasparenti, che sembrano illuminati dall’interno (proprio come Ecce Homo), diventano essere umani idealizzati, immagini spiritualizzate, e il corpo umano un modello di creazione.
Ecce Homo porta ancora più avanti questo processo di idealizzazione: il risultato non è un corpo, ma un fascio di luce che assume forma antropomorfa; nello stesso tempo è come se la luce incarnasse l’idea in forma sensibile: non si tratta della semplice mimesi di un corpo riverso, ma della sua epifania, di una figura di luce che prende corpo, agisce come emanazione, si inserisce nel mondo visibile e ne diventa una rappresentazione particolare. Al posto della figura, la sua radianza. Questo corpo però non è un unico fascio o “blocco” di luce. Si tratta di un corpo formato da cinquanta lastre incise. In un certo senso, esso funziona come una’immagine cinematografica: è un corpo in sequenza, una sequenza di corpo. Se l’immagine in movimento, al cinema, è formata da ventiquattro fotogrammi fissi al secondo, qui il corpo è formato dalla somma dei suoi frammenti impressi sulla lastra; analogamente al cinema, il cui fotogramma non è altra cosa che impronta di luce, qui ogni lastra, retro illuminata, reca impressa un’incisione con una traccia parziale del corpo di Cristo; in entrambi i casi si ottiene una divisione, un montaggio invisibile che implica l’idea del dover percorrere una serie di istanti che si susseguono fra loro: e se i fotogrammi possiedono momenti di assoluta inintelligibilità (un alone, una sciabolata di luce dove prima c’era un corpo), la lastra reca impresse, incise al laser (luce che serve ad incidere la luce) tracce assolutamente minimali, aniconiche. Questo ci fa pensare ad un aspetto essenziale della visione: quando vediamo qualcosa, riceviamo una porzione di informazione limitata: una sensazione, un precipitato di ciò che potrebbe essere; in un certo senso, noi vediamo per indizi: tutto il resto lo inventiamo basandoci su tradizione ed esperienza, perché il reale è sempre ricostruito. Ed Ecco Homo suggerisce anche questo, un reale inafferrabile e multiforme, che nasce e si configura a posteriori attraverso accidenti (incisioni) riordinati grazie alla memoria. Ecco allora che la teca, dove la figura di luce riposa, diventa una superficie stabile di iscrizione luminosa, un fluida ricettività materna dove aderisce e si forma il corpo disteso: la teca è un grembo dove la figura non smette di plasmarsi.
Perché chiamare Ecce Homo l’immagine di un corpo disteso, se le parole alludono ad un altro momento dei Vangeli, quando Pilato mostra al popolo Gesù, in piedi, appena flagellato?
Perché questo corpo riverso, che abbiamo descritto come radiante epifania, è nello stesso tempo l’incarnazione di tutti i corpi dimenticati, emarginati, umiliati e offesi del mondo: un corpo astrale è anche il più materiale dei corpi, e ci ricorda coloro che si trovano ai margini, gettati, senza riparo (la teca diventa così la panchina di un parco, il lato all’ombra di un marciapiede, un cantuccio sotto ad un palazzo abbandonato), lasciati a lato del flusso della storia. Ecce Homo è il corpo che presto o tardi si solleverà, chiedendoci il perché della sua miseria e della nostra indifferenza.
In un’ultima giravolta del pensiero però, vediamo come il titolo, Ecce Homo, invece di essere la presentazione, l’esposizione di un corpo percosso e oltraggiato diventa l’esclamazione davanti ad un colpo redento, cioè liberato: Eccoti, Uomo! E questo rivelare l’altro a noi stessi e l’altro che c’è in ognuno di noi: dilaniato, esposto, nudo, solo, abbandonato, egli è nostro simile, è nostro compagno, è nostro fratello.
Ma questa figura distesa è anche al di là della miseria e del tumulto, dell’abbandono e della resistenza, della sconfitta e della vittoria. E vengono in mente le parole dell’Apocalisse (21,4): “Dio detergerà tutte le lacrime dai loro occhi, e morte più non vi sarà, né grida, né dolore”.
Giovanni Festa (testo che accompagna l’installazione alla Fondazione Banco di Napoli)
Cristian Rizzuti. Ecce Homo, Fondazione Banco di Napoli, Napoli, 09.04 – 15.05.2022