Francesca Leoni e Davide Mastrangelo, Direttori Artistici del Festival Ibrida, raccontano la storia recente del Festival fino alla quinta edizione che sta per aprire a Forlì e online (11 – 13 settembre, 2020), curata da Vertov Project, in collaborazione con il contributo critico di Piero Deggiovanni.
Elena Giulia Rossi: Come è nata l’idea del Festival? Quale era il clima culturale cinque anni fa? [parlare di arti intermediali e di arti ibride era forse meno popolare rispetto ad oggi].
Francesca Leoni e Davide Mastrangelo: Noi nasciamo in primis come video artisti e, come tali, ci siamo chiesti come mai in Europa c’erano festival e rassegna dedicate alla videoarte e alle arti digitali, mentre in Italia queste forme artistiche rimanevano spesso relegate ad una funzione di contorno. Quindi l’impulso primario era diffondere la cultura delle arti intermediali, poi la volontà di creare qualcosa nel nostro territorio, l’Emilia-Romagna, che riteniamo essere particolarmente fertile e disponibile a nuovi linguaggi. Non siamo partiti subito con un Festival, ma abbiamo prima «tastato il terreno» con un evento che abbiamo chiamato Re/Azione, una sorta di happening che si svolgeva in un’unica giornata, con artisti contemporanei e performer. L’evento tracciava vagamente quello che sarebbe stata poi la struttura di Ibrida Festival. Dopo due edizioni abbiamo deciso che era giunto il momento di crescere. Noi diciamo spesso che Ibrida Festival ha una dimensione da «salotto», perché ha un clima accogliente che incoraggia il dialogo e lo scambio d’idee e pensieri. Gli artisti presenti durante il Festival sono sempre disponibili a dialogare con chiunque. Inoltre, nel tempo è diventato un luogo nevralgico d’incontro tra artisti: molti progetti e collaborazioni sono nati a Ibrida, ed è questa l’importanza fondamentale di un Festival, almeno per noi. Quando abbiamo iniziato, le parole «ibrido/a» o «intermediale» venivano utilizzate raramente. Abbiamo fatto diverse ricerche sull’indicizzazione di queste parole, prima di scegliere il nome definitivo. Ibrida veniva associata quasi esclusivamente alle autovetture. Ora, per fortuna, ci capita spesso di vedere articoli d’arte contemporanea o presentazioni di altri Festival in cui si utilizzano le parole ibrida/o, ibridata, intermediale e intermedialità. Nel nostro piccolo speriamo di aver contribuito in qualche modo a questa diffusione. Ritornando al discorso delle origini, volevamo creare un Festival che fosse votato principalmente alle arti intermediali, con un focus fondamentale sulla videoarte e sull’utilizzo dell’audiovisivo in forma sperimentale, soprattutto nelle arti performative. Stiamo crescendo gradualmente, con il nostro pubblico, cercando di aggiungere qualcosa a ogni edizione, creando così nuove connessioni con artisti affermati ed emergenti, con un occhio di riguardo per le nuove tendenze.
Da sempre il vostro obiettivo è quello di fare il punto sulle ultime tendenze della ricerca italiana, cosa lodevole nel mezzo di una cultura prevalentemente esterofila. Che direzione stanno prendendo gli ambiti di ibridazione tra discipline nell’ottica della vostra esperienza? Come è cambiato lo scenario della produzione delle arti intermediali da quando avete iniziato ad oggi?
La videoarte, dopo la digitalizzazione dei segnali analogici, ha subito diverse trasformazioni. Ogni volta che c’è un upgrade in un software di montaggio o viene aggiunto un nuovo tool o lanciata sul mercato, una nuova camera, tutto questo viene immediatamente assorbito dagli artisti. Per non tralasciare le novità che vengono aggiunte nelle varie «app». Ibrida Festival ogni anno dedica una sezione alla Post Internet art, con la curatela di Piero Deggiovanni, che da anni segue le tendenze di questi artisti che utilizzano le risorse della rete per creare opere video. Noi abbiamo un occhio di riguardo per tutte le nuove tecnologie in campo audiovisivo, ma non dimentichiamoci che il nostro Festival si concentra molto sulla videoarte monocanale, che si evolve anch’essa di pari passo con i software di montaggio e ovviamente, con la sempre fervida immaginazione degli artisti. Oggi l’intermedialità è diventata, dopo la rivoluzione del passaggio dall’analogico al digitale, un concetto fondamentale per conoscere la nostra epoca, la sua estetica, e soprattutto i meccanismi che la muovono.
Qual è stata la risposta del pubblico e del territorio fino a questo momento?
Il nostro pubblico è particolarmente attento e interessato e cresce con noi. Sin dalla prima edizione abbiamo riscontrato una buona partecipazione. Ovviamente stiamo parlando di arti intermediali e videoarte, quindi non ci possiamo aspettare una folla oceanica, anche perché c’è ancora l’idea che sia un linguaggio difficile da capire. Per questo noi continuiamo imperterriti a formare le persone attraverso incontri e workshop, proponendo infine di venire al Festival e lasciarsi coinvolgere dalle immagini audiovisive. In fondo, per uno spettatore non è necessario analizzare e conoscere tutto, per forza, a volte basta essere curiosi e lasciarsi trasportare dalle immagini e dalla musica. La videoarte non offre risposte, ma domande. Infine: grazie ad un approccio diretto abbiamo notato un crescente interesse verso la nostra realtà, anno dopo anno, non solo da parte di studenti delle Accademie, ma anche da parte di un pubblico generico che decide di abbandonarsi senza preconcetti alla sperimentazione audiovisiva.
Durante questi mesi di isolamento, molti musei, istituzioni di ogni tipo e ogni dove si sono riversati online. Questa è stata per molti una necessità del momento. Come credete si possano sfruttare al meglio le possibilità della comunicazione in un’ottica futura?
La fruizione online è stata per molti una necessità per continuare a operare, rimarcando in questo modo la propria esistenza. Il lato positivo di questa situazione è che improvvisamente abbiamo avuto la possibilità di vedere, da casa, spettacoli che si sono svolti a Londra o New York. Molte istituzioni hanno messo online gratuitamente incontri e workshop che prima erano accessibili solo in presenza o a pagamento. Ci sarebbero tanti esempi lodevoli da elencare. Il lato negativo è sicuramente stato quello di avere una saturazione di contenuti streaming concentrata in così poco tempo. Ovviamente ancora non siamo tornati alla cosiddetta «normalità», ma anche se così fosse, quello che è successo sicuramente ha lasciato segni indelebili. Per noi, come per molti altri, l’incontro e la presenza fisica sono fondamentali. Nel nostro caso sicuramente utilizzeremo in futuro la possibilità di creare uno streaming online, con performance ad hoc, aprendoci così anche a persone artisti, curatori e critici che dall’estero guardano con un’attenzione al nostro progetto.
Ibrida si interessa di performance art, di musica elettronica e di video arte. Creare un Festival è un momento importante di scambio tra persone ma anche tra discipline.
Sì, certamente. Ibrida si basa principalmente sull’intermedialità, cioè sull’utilizzo di più discipline contemporaneamente da parte dell’artista, quindi è il luogo idoneo, più che per lo scambio, per il dialogo e l’incontro tra le varie discipline artistiche.
Come avete immaginato la fruizione del festival online dell’edizione di quest’anno?
Precisando che il Festival quest’anno ha la duplice formula, online e in presenza, abbiamo creato una piattaforma all’interno del nostro sito, che abbiamo chiamato Ibrida Live, dove abbiamo progettato quattro «stanze fisiche» del Festival: Red Room, Green Room, Blue Room e Live Room. In ciascuna ci sarà una selezione video diversa ogni giorno, disponibile solo durante il periodo del Festival. L’accesso alle stanze Red, Green e Blue è gratuito, quindi qualsiasi utente potrà accedere e vedere liberamente le nostre selezioni e quelli di curatori esterni. I live che faremo all’Arena dei Musei San Domenico a Forlì, invece, saranno disponibili in streaming tramite il pagamento di un biglietto digitale unico che vale per tutto il Festival. Per noi ovviamente è un banco di prova, un modo per far fruire Ibrida oltre i confini. A fine Festival vedremo com’è andata e tireremo le somme di questa nuova esperienza.
Come immaginate un potenziale spazio ibrido che ritenete ideale?
L’unico spazio ideale è quello che si adatta di volta in volta alla poetica del Festival, dei nostri artisti e della situazione attuale che, come ci è stato dimostrato negli ultimi mesi, può serbare sorprese inaspettate mettendo tutti alla prova, con nuove sfide.
Ibrida Festival, Forlì (Italy) and online,11-13 settembre, 2020
immagini: (cover 1) Allie Coates (with performance by Signe Pierce), American Reflexxx, 2013 (2) Francesca Leoni e Davide Mastrangelo, «Ibrida Festival», courtesy Leoni & Mastrangelo, photo by Consuelo Canducci (3) Shir Handelsman, «Recitative», 2019, still from video (4) Mara Oscar Cassiani, Justice 2k19 (5) Sofia Braga,«I stalk myself more than I should», 2019 (6)Devis Venturelli, «Monumento», 2010 (7) Fran Orallo, «Death Dance», 2018.