Racconta di aver vissuto, a Venezia, in una casa che affacciava su piazza San Marco: un continuo esercizio della vista, una questione di allenamento dell’occhio al bello, sin da bambino, ammette il fotografo.
L’occhio come mestiere è la personale di Gianni Berengo Gardin curata da Margherita Guccione e Alessandra Mauro, inaugurata presso lo Spazio Extra del MAXXI il 4 Maggio scorso e in programma fino al 18 Settembre: una mostra sulle città italiane, dal dopoguerra ad oggi, in un percorso che torna sempre a Venezia. L’occhio come mestiere, come il titolo di un suo libro del 1970, curato da Cesare Colombo: un’antologia che testimoniava dell’importanza del metodo e dello sguardo per raccontare il proprio tempo.
In duecento scatti il tempo, la gente e lo spazio, seguendo l’insegnamento di Ugo Mulas: “Non foto belle, ma foto buone”. La ricerca dell’emozione piuttosto che del valore estetico: un artigiano, non un artista, con l’inseparabile Leica, che crede nel valore documentale della fotografia, e nell’importanza dell’archivio come testimonianza della storia.
E di storie Berengo Gardin ne ha raccontate tante, tutte in bianco e nero. La storia della società italiana, da meridione a settentrione. E quello che colpisce è l’atlante che si viene a creare: una raccolta di spazi, scenografie urbane quanto domestiche, luoghi rurali e luoghi di produzione.
Berengo Gardin dà conto dello spazio costrittivo dei manicomi, mostra con coraggio quei non luoghi e li caratterizza per la loro impersonalità e asetticità. Spazi vuoti, di sofferenza, di vita sospesa, alle volte affollati: gli spazi di Morire di classe, libro di grande forza espressiva realizzato insieme a Carla Cerati nel 1968, che contribuì all’approvazione della legge Basaglia per la chiusura dei manicomi.
Si descrive lo spazio Dentro le case con scatti tratti da un progetto del 1977 che fotografava la dimensione intima degli individui. Gli spazi domestici, le scene di vita quotidiana con chi quegli spazi li viveva, tra gli oggetti e le suppellettili, per documentare l’essere umano e i suoi affetti.
C’è la storia degli spazi di Venezia, dagli anni Sessanta ad oggi. Spazi minuti, a misura d’uomo, contrapposti a quelli esasperati delle grandi navi: le calli con le luminarie e i giostrai, gli spazi di attesa per il vaporetto, i canali, le piazze e i grandi fuori scala delle navi da crociera, tratti dal celebre reportage realizzato tra il 2012 e il 2014.
Lo spazio della produzione e dei luoghi di lavoro narrato attraverso le immagini delle risaie piemontesi, dei dormitori delle lavoratrici stagionali accanto ai luoghi di produzione industriale e alle catene di montaggio. Berengo Gardin celebrava, negli anni Sessanta, il lavoro dell’uomo e la visione illuminata di Adrano Olivetti esaltando con i suoi scatti il valore dei servizi sociali e culturali per i dipendenti e per il territorio.
Si descrive lo spazio in costruzione: il cantiere del MAXXI DI Zaha Hadid, insieme a quelli per la ricostruzione de L’Aquila. Berengo Gardin racconta di aver imparato a narrare l’architettura con Renzo Piano. Un’architettura in costruzione, un oggetto in divenire, fatto del lavoro dell’uomo, del costruttore e del progettista, di dettagli che, ad opera conclusa, resteranno celati. Un atlante di luoghi, città, paesaggi come tasselli di una storia più grande: vite e luoghi privati che si intrecciano per restituire un quadro complesso della storia italiana.
Gianni Berengo Gardin, L’occhio come mestiere, a cura di Margherita Guccione e Alessandra Mauro, MAXXI – Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, Roma, 04.05 – 18.09.2022
immagini: (cover 1) Gianni Berengo Gardin, «Taranto», 2008, © Gianni Berengo Gardini/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia (2) Gianni Berengo Gardin, «Treno», Roma Milano, 1991, © Gianni Berengo Gardini/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia (3) Gianni Berengo Gardin, «Una Grande Nave In Bacino San Marco», Venezia, 2013, © Gianni Berengo Gardini/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia