Una telecamera di sorveglianza controlla una porzione di spazio fuori campo: un’immagine metonimica della posizione prescelta dal fotografo in questa occasione. Paris, infatti, è una serie del progetto dedicato alla città contemporanea (tra cui Berlino, Helsinki, New York e Philadelphia) su cui Franco Belsole lavora dal 2010. Spazi di modernità, di flussi, di riflessi di vetro e acciaio, di luce zenitale, dove le presenze umane sono sostanzialmente passanti, sconosciuti per lo più indifferenti gli uni agli altri, e piuttosto assorti nei propri pensieri, preoccupazioni, occupazioni. In effetti per Belsole il luogo ha un’importanza relativa, niente evoca l’atmosfera tipica di Parigi e non a caso, dato che la location è il moderno quartiere della Défense.
Belsole usa il teleobiettivo per ottenere una visione nitida anche da grande distanza, rendendo le figure così vicine da poterne osservare gli abiti spiegazzati alla fine della giornata, i gesti, gli oggetti. Eppure, tale voluta prossimità non dice granché su di loro: perfino con lo sguardo in macchina uomini e donne sono come sospesi, isolati in un mondo interiore di cui nulla è dato sapere. Eccetto un presupposto rapporto con il contesto in cui sono ripresi.
Infatti, con un punto d’osservazione ad altezza d’uomo, la composizione che Belsole preferisce presenta un elemento dell’arredo urbano quasi schiacciato – per effetto della prospettiva – sulla figura. E’ una scelta precisa, spiega l’autore, tramite la quale si materializza una sorta di oppressione della società sull’individuo, che risulta così incasellato alla stregua di alcune figure che Uliano Lucas ha sorpreso ad attraversare Piazza Dante a Milano (2008).
Nella mostra I non luoghi di Franco Belsole tali scatti sono associati – in altrettanti dittici – a visioni ravvicinate di particolari di edifici: il campo visivo è talvolta saturato dalla tipica griglia modernista, mentre i vetri catturano riflessi incongrui e momentanei, rendendo sostanzialmente impenetrabile l’interno. Belsole fotografa – anche in questo caso – il guscio dell’abitare, la superficie che si fa tropo dello scivolare nello spazio pubblico. Edifici e individui, però, non dialogano alla pari: i primi sovrastano i secondi, definiscono percorsi, atmosfere e illuminazione dei contesti.
Collocabile nel solco della fotografia dell’impassibilità – che muove dal lavoro di Bernd e Hilla Becher e, in Italia è stata declinata nelle campagne fotografiche di Gabriele Basilico degli anni Settanta – caratterizzata dall’asciuttezza del bianco e nero, la ricerca di Franco Belsole, tuttavia, presenta tangenze anche con gli scatti che Armin Linke ha dedicato ai paesaggi edificati: il fotografo di origine tedesca, infatti, ogni tanto indugia sulle geometrie astratte che si stagliano ricche di colori all’orizzonte, prediligendo però punti di vista fortemente scorciati, a sottolineare la soggettività della visione. Mentre Belsole assomiglia all’osservatore mimetizzato tra la folla, che scruta senza essere visto: fantasma tipico della società controllata di cui tutti siamo partecipi e, talvolta, complici.
Questo testo è stato scritto in occasione della mostra a cura della stessa autrice: I non luoghi di Franco Belsole, AOCF58 Galleria Bruno Lisi – Roma, 12.01.-30-01.2015
Immagini (tutte) Franco Belsole, Paris, 2010