Il cinema, nel corso del tempo, ha sempre cercato di uscire dagli spazi angusti dello schermo per abbracciare superfici insolite e impreviste. Negli ultimi anni questa tendenza si è estremizzata in modo tale da assumere le caratteristiche di una forma artistica propri.
Si tratta del video-mapping 3D, una nuova declinazione della videoarte in cui le immagini sono concepite per essere proiettate su edifici, elementi scultorei artificiali o presenze naturali del paesaggio. In questo modo si modifica la percezione «naturale» delle forme tridimensionali, attraverso la sovrapposizione di una «pellicola» di luce, che, nell’oscurità dell’evento notturno, realizza la sensazione di una nuova realtà fluida, che va a sostituirsi all’elemento solido esistente.
Una poetica che rende questo tipo di eventi forti e coinvolgenti, e che trova a sua efficacia proprio nel gioco con l’ambiguità percettiva. La luce produce animazioni bidimensionali che si adeguano alle architetture, dapprima vi si sovrappongono e si insinuano per poi modificarle subito, oppure negarle con delle vere e proprie «demolizioni virtuali». Ad accompagnare la sollecitazione sensoriale delle performances di questo tipo vi è anche la componente sonora, anch’essa intensa e composta in modo tale da essere in perfetta sincronia con la parte visuale, in modo da accrescere ulteriormente l’immersività dello spettacolo.
A partire dagli anni ’90 infatti, nuovi e più potenti proiettori hanno reso possibile la realizzazione di visioni che, fino a qualche anno prima, erano impensabili. Di pari passo anche l’esponenziale incremento di qualità delle piattaforme digitali ha favorito una nuova onda di creatività che partiva dai personal computer casalinghi e non dalle case di produzione cinematografiche.
C’è anche chi sostiene che il visual mapping abbia ricevuto, nello stesso periodo, un forte impulso dalla cultura rave, in cui vi era la necessità di creare ambienti immerisivi in contesti non in grado di ospitare supporti stabili per le proiezioni, ed allo stesso tempo perfetti ambienti per performances «effimere». Ogni superficie disponibile era un’opportunità di creare nuovi mondi immaginari, non necessariamente ristretti nell’ambito dell’angusto rettangolo della visione cinematografica.
La consacrazione della tecnologia in questione come forma artistica riconosciuta avviene, a partire dal 2005, con il Mapping Festival di Ginevra. Questa manifestazione è nata con l’idea di esplorare ed approfondire il fenomeno del Vijing, ovvero la traslazione a livello visivo delle tecniche di intrattenimento del Disk Jokey dell’era digitale, il quale crea una nuova musica mixando tra di loro campioni, ovvero «ritagli» di files audio, dal vivo, in tempo reale. Il VJ, seguendo quest’analogia, proietta visioni derivate da animazioni o filmati di breve durata sincronizzati in modo empatico alle performance sonore. Nel corso degli anni la tecnica del visual mapping è diventata dominante all’interno della manifestazione di Ginevra, in cui si confrontano le tecniche e le espressioni artistiche più avanzate di questa forma di spettacolo.
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Gli artisti europei di estrazione francofona dell’etichetta visiva ANTIVJ sono tra gli esponenti più conosciuti del visual mapping, protagonisti di varie edizioni del festival di Ginevra; accanto a loro vi sono altri nomi conosciuti a livello mondiale legati a interventi di grandi dimensioni come quello degli Urbanscreen all’Opera House di Sidney.
Le proiezioni su architetture si prestano a raccogliere grandi quantità di spettatori, attratti dalla novità e dall’unicità dell’evento. I volti urbani, che nella quotidianità sono percepiti come statici e prevedibili, si animano in contorte espressioni geometriche che pulsano su ritmiche e suoni sintetici proprie della scena della musica elettronica d’intrattenimento.
Una messa in scena più riservata e intima, nonché una finalità maggiormente riflessiva e incentrata sui fenomeni percettivi è quella concepita dallo spagnolo Pablo Valbuena. Dal 2007 egli lavora soprattutto in ambiti museali o in piccoli spazi urbani e utilizza il concetto di «scultura aumentata» proprio per rappresentare un ideale prolungamento di forme artistiche consolidate dal mondo accademico verso nuovi stimoli legati all’immaterialità e alle suggestioni del virtuale.
Restando negli stessi ambiti, un percorso espressivo più radicale e meno architettonico è quello di Tony Oulser, nato nel ’57 a New York; le sue opere sono caratterizzate da un mixed media di scultura, performance e video che verso la fine degli anni ’80 delineano la sua cifra stilistica costituita da volti surreali e deformi proiettati su solidi o oggetti comuni, che creano un dialogo straniante tra il visitatore e queste creature aliene, che riescono a suscitare sentimenti che passano facilmente dalla repulsione alla tenerezza.
Altri artisti provenienti dal mondo della danza come Klaus Obermaier, negano il mondo statico e artificiale delle consuete superfici di proiezione e utilizzano il corpo umano, che diventa esso stesso un elemento tecnologico espressivo integrato nella coreografia. Questa impostazione tecnologica prende il nome di motion tracking, indice del fatto che si tratta di obiettivi di cui tracciare il movimento oltre la fisicità stessa del performer, che si prolunga e si distorce attraverso interventi immateriali e luminosi che creano nuove forme di vita ibride e danzanti nella continua ambiguità del loro essere elemento scenico o protagonista.
Il visual mapping 3d è solo una delle tappe di un percorso storico della necessità di creare mondi visivi immaginati nel movimento e nella virtualità. Ha tuttavia illustri antenati, in primis il teatro d’ombre cinese, ma anche la ricerca, in epoca romantica, di un’arte totale che si realizza solo con l’invenzione delle piattaforme digitali. I successivi passaggi di questo processo si potranno osservare partendo dall’invenzione del cinema, passando alle meraviglie delle esposizioni universali dell’inizio del secolo scorso, le nuove prospettive del cinema espanso, i suggestivi spettacoli di luce Son et lumière e i primi effetti sperimentali nei parchi di divertimento della Disney a partire dalla seconda metà del ‘900.
Il processo di mappatura delle superfici tridimensionali non è altro che un’evoluzione tecnologica ed espressiva che sta accompagnando la smaterializzazione dei supporti verso proiezioni olografiche sempre più dettagliate, per creare non più solamente una realtà aumentata, ma un nuovo paesaggio in prestito.
Questo articolo è precedentemente apparso sulla rivista online «doppiozero», nel novembre 2013