Il lavoro fatto con gli artisti per produrre le loro opere in video è stato un attraversamento della mia stessa vita, spesso anche della loro vita, mai un progetto rigoroso, è stata un’operazione assolutamente orizzontale, un percorso creativo come è in realtà quello dell’arte in genere
Maria Gloria Bicocchi
In Italia ha svolto un ruolo di primo piano per la conoscenza, la valorizzazione e la promozione della video arte lo studio art/tapes/22, fondato nel 1973 a Firenze da Maria Gloria Bicocchi. Affascinata dai progetti di Gerry Schum, M. G. Bicocchi decise di dedicarsi alla realizzazione e produzione di videotape istituendo un centro dedicato alle sperimentazioni del nuovo medium. Analogamente ad altre realtà che negli stessi anni si concentravano sui linguaggi capaci di far incontrare arte e tecnologia, lo studio fiorentino era un luogo di sperimentazione aperto agli artisti. Il centro era improntato alla collaborazione e alla condivisione di pensieri e progetti ed era aperto anche al pubblico. Negli anni ’70 la collezione art/tapes/22 si presentava come «un lavoro all’avanguardia nel mondo» [1] ed è tuttora oggetto di studio da parte di critici, curatori e appassionati.
Il centro, con una sede a Parigi e una a New York, si inseriva in un contesto internazionale grazie alla collaborazione con realtà prestigiose come la Castelli-Sonnabend Videofilms Corporation e produceva i lavori di artisti di alto profilo quali Bill Viola, operatore e direttore tecnico di art/tapes/22 dal ’74 al ’76, Muntadas, Baldessari, Jonas, Acconci, De Dominicis, Horn, Kounellis, Levine, Paolini, Abramovic, Zorio e molti altri ancora.
Nel 1976, malgrado le importanti collaborazioni e la vocazione internazionale, il centro sospese per ragioni economiche la propria attività e nel 1977 la collezione fu venduta all’ASAC, Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale di Venezia. Negli anni ’70, infatti, grazie all’attività di personalità interessate al rapporto tra arte e tecnologia come Umbro Apollonio, Renato Barilli, Gerry Schum, Paolo Cardazzo e Wladimiro Dorigo, la Biennale di Venezia si apriva all’arte elettronica. In quegli anni l’ASAC, nella sede di Ca’ Corner della Regina, era un luogo all’avanguardia per la fruizione del materiale audiovisivo, dotato di spazi espositivi, una sala cinematografica e una multimediale, uno studio fotografico, postazioni per l’ascolto e la visione dei materiali audio e video e una biblioteca specializzata in nuovi media. Dopo tale acquisizione l’Archivio della Biennale ha proposto iniziative volte alla valorizzazione della video arte e nel 2007, in seguito al deterioramento subito dalla collezione art/tapes/22, la Fondazione La Biennale di Venezia, in collaborazione con la Fondazione Venezia e l’Università di Udine, ha promosso, in sintonia con il progetto Preserving Video Art del Netherlands Media Art Institute e con il 40YEARSVIDEOART.DE, un intervento di restauro conservativo, tra i primi tentativi italiani di elaborazione di un protocollo di preservazione per le opere video[2]. Tale intervento dimostra come il restauro della video arte vada oltre l’obsolescenza degli strumenti tecnologici e ponga problemi significativi sotto il profilo della critica e della conservazione stimolando una riflessione sul fenomeno della video arte e sulla sua storicizzazione e intervenendo non solo «in modo conservativo ma in forma valorizzante o più precisamente ri-attualizzante»[3].