Cosa accade quando l’arte incontra le nuove tecnologie? E quando l’istituzione museo incrocia l’anarchia creativa dei new media?
La Tate Gallery non ha dubbi in proposito: si lancia il Tate’s Intermedia Art programme, nel quale eventi, performace e new media sono utilizzati per creare nuove opere e forme d’arte ‘intermediali’. E poco importa se il museo in questione non nasce nell’ambito delle nuove tecnologie multimediali ma come Galleria Nazionale dell’arte britannica nella meta dell’Ottocento. Il presente impone infatti nuove emergenze, alle quali il museo inglese risponde ponendosi al centro della ricerca, stimolo alle sperimentazioni e al dialogo museo-artisti-new media, ampliando la divulgazione e l’esposizione di opere al di là delle pareti della galleria.
Alla fine degli anni Novanta la politica museale in generale [1] ha visto lo snodarsi di un percorso che va dalle prime esperienze di digitalizzazione del patrimonio fino al ruolo della Rete come “modello pratico di decentralizzazione della conoscenza e delle strutture di potere” [2], rinunciando alla politica ‘gold standard’ della collezione museale in senso tradizionale.
Con la rivoluzione informatica e tecnologica globale e quindi lo spostamento dei meccanismi economici, la Tate percepisce i cambiamenti della società e dell’arte, si evolve ridisegnando il suo ruolo nel dialogo, apre su un panorama nuovo, mutevole e imprevedibile come quello new media, come si legge infatti sul Tate Report 2002-2004: “Many of Tate’s aims can be fulfilled through embracing new technology and finding ways to use it most effectively” [3]. Sfrutta quindi a proprio vantaggio il medium Internet, accogliendolo entusiasticamente come mezzo propulsivo piuttosto che come moda problematica o ineluttabile epilogo dovuto alla deriva tecnologica dei tempi; e dal 1999 commissiona, promuove e ospita nella sua venue virtuale Tate Online le pratiche, le idee, i processi che vedono tecnologie vecchie e nuove, dalla radio a internet, mescolarsi in nuovi inaspettati esiti artistici, che tengono conto delle implicazioni politiche e sociali più recenti.
Charlie Gere in “Networked Art and the Networked Gallery” ha già messo in evidenza il fondamentale passaggio della Tate da galleria a ‘network distribuita’, che si avvale cioè di “multiple connections between the various sites, virtual and physical” [4]. Non più l’edificio cioé ma il marchio Tate, applicabile a diversi luoghi e processi, reali e virtuali, così come le strategie della società post-industriale suggeriscono.
La presenza del programma Intermedia Art testimonia quindi non l’epilogo ineluttabile e problematico dei tempi, ma il cosidetto ‘cultural shift’, lo spostamento culturale legato all’epoca di internet e agli sviluppi tecnologici nella società.
di Michela Ruggeri
- Eventi come le mostre net_condition allo ZKM (1999-2000) e 010101: Art in Technological Times al Museum of Modern Art di San Francisco (2001), la presenza della Net Art alla Biennale di Venezia del 2000, l’ingaggio di Christiane Paul come new media curator al Whitney Museum of American Art di New York, le commissioni di opere on-line da parte del Guggenheim di New York e naturalmente del Tate di Londra. Nel 2005 in Italia la mostra Connessioni leggendarie di Milano e già quasi una retrospettiva sulla storia della Net Art: ripercorre il decennio 1995-2005 nello sforzo dichiarato di salvare il racconto della Net Art.
- Cfr. Elena Giulia Rossi, ArcheoNet. Viaggio nella storia della net/web art e suo ingresso negli spazi dei musei tradizionali, Lalli, Poggibonsi 2003, cit., p. 36.
- Cfr. Tate Report 2002-2004, cit., p. 240, consultato su http://www.tate.org.uk/download/file/fid/4432 (2004).
- Cfr. Charlie Gere, “Network Art and the Networked Gallery”, su http://www.tate.org.uk/intermediaart/entry15617.shtm (2006).