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Home News Focus

Intervista | Delphine Valli

Elena Giulia Rossi by Elena Giulia Rossi
13/07/2022
in Focus, Interview
Intervista | Delphine Valli
Delphine Valli, artista da sempre impegnata nella ricerca delle tensioni che si creano tra intervento artistico e spazio, coinvolto come elemento plastico, racconta del suo progetto di residenza The Impossible Present, ricongiungimento della sua ricerca creativa con la matrice tradizionale islamica dalla quale origina. Dal progetto, vincitore della X edizione Italian Council, nasceranno una serie di disegni progettuali per Walldrawings e una serie di eventi che metteranno a confronto realtà internazionali che operano nel campo artistico (FAI-AR, Mucem, Marsiglia) e filosofico e scientifico (Opera Mundi, Marsiglia), culminando in una pubblicazione che realizzerà con Parallelo42 Contemporary Art. Il progetto verrà presentato e restituito ad AlbumArte, a Roma.

Elena Giulia Rossi: Ci puoi raccontare del tuo progetto di residenza? Dove è nato e dove ti ha portato fino a questo momento?

Delphine Valli: Il progetto, che si pone di fronte alle impossibilità del tempo e che interroga quelle personali, è nato, oltre che dalle necessità citate, da quella di ricongiungermi con la cultura islamica nella quale ho vissuto fino ai miei 16 anni, ad Algeri. Il dialogo con Melania Rossi nei momenti della sua stesura è stato essenziale, ci è apparso evidente il rapporto tra il mio lavoro e l’arte islamica, che vuole portare ad una comprensione della realtà sottostante e che, non potendo rappresentare la figura divina, invisibile per natura, ha interiorizzato il dato spirituale.

Questa necessità impellente, di ricongiungermi con la cultura che mi ha visto crescere, non era solo una necessità esistenziale ma riguardava intrinsecamente il mio lavoro che in fondo, mi stava riportando a lei.

Capillarmente, la necessità della ricongiunzione mi ha spinta a pensare una convergenza dei saperi, attraverso il dialogo con i miei partner culturali, AlbumArte a Roma e il Mucem, Opera Mundi, La FAI-AR e Les Ecrans du large siti a Marsiglia, dove ho vissuto prima di approdare a Roma, avremo forse modo di parlarne più in là, ma diciamo che ho spostato il baricentro dell’attenzione verso Sud, unendo tre città del bacino mediterraneo che mi sono legate, spostando lo sguardo verso  il Maghreb, che ha fondamentalmente un’altra visione del mondo della nostra occidentale.

Ho avvertito la necessità di comprendere meglio ciò che avevo fatto per anni, in modo, mi sembrava, fondamentalmente intuitivo, quasi ci fosse stata una fedeltà a un intento criptico, senza distrazione possibile. La necessità di fermarmi a pensare e a elaborare quanto realizzato. Questa necessità era anche motivata, dopo l’urto del COVID, dalla crisi globale di cui il cambiamento climatico è solo uno degli effetti. Siamo già di fronte a una minaccia esistenziale diretta, secondo l’Onu, che solitamente non è particolarmente allarmista. L’essenziale delle specie viventi è già morto, parliamo della sesta estinzione massiva. Quello che ci uccide è la nostra paura di immaginare un’alternativa alla situazione attuale, insostenibile. Come sottolinea Aurélien Barrau, astrofisico e filosofo, fermarsi a riflettere, oggi, è rivoluzionario.

Allo stesso momento, la questione non esula affatto dalla mia personale ricerca. Sono partita proprio dal dato invisibile, che plasma il mio lavoro quanto gli aspetti materiali. Il nostro tempo ci mette di fronte al fatto che le sue grandi sfide sono legate all’invisibile, come ricorda il critico d’arte Nicolas Bourriaud (le sostanze inquinanti, il virus che ci condiziona da 2 anni ormai, sono invisibili) e come le recenti scoperte della fisica quantistica hanno dimostrato. Si può anche dire che la psiche umana, come le nostre società, si fondano sulla capacità a rimuovere, rendendo invisibile ciò che disturba.

Il confronto culturale includendo la diversità di prospettive oggi è quanto mai cruciale ed è proprio il centro della tua ricerca che parte da studi sulla cultura islamica. La ‘prospettiva’, qui intesa come angolazione e sguardo, è proprio un possibile punto di partenza per discutere sul rapporto delle due culture con le immagini. Le tue immagini, quelle che si ricompongono nello sguardo, sembrano porsi proprio al confine tra più mondi: geometrie e linee che ricalcano spazi invisibili, proseguono lo spazio e il mondo, oltrepassano tutto ciò che ‘finito’, quindi le soglie del possibile

Come sottolinei, Oriente e Occidente si trovano su due sponde distinte e l’adozione della prospettiva in Occidente, che mette al centro l’essere umano e il suo sguardo, e trasforma il mondo in immagine, ha radicalmente condizionato, ormai a livello globale, non solo la visione del mondo, come immagine simbolica antropocentrica, ma come sottolinea Hans Belting ne I canoni dello sguardo, Storia della cultura visiva tra Oriente e Occidente, “L’odierna globalizzazione della prospettiva coadiuvata dal marchio occidentale, impresso in tutto il mondo da media televisivi e stampa, ha una lunga storia pregressa nella colonizzazione di altre regioni del pianeta e nell’attività missionaria a favore del cristianesimo. In tale forma violenta di esportazione, la prospettiva fu formalmente imposta ad altre culture, prevaricando sulle loro consuetudini visive.”

Dici giustamente, parlando delle mie geometrie e linee che ricalcano spazi invisibili, proseguono lo spazio e il mondo, oltrepassano tutto ciò che è ”finito”, quindi le soglie del possibile, non potrei trovare migliore sintesi al mio intento, motivato da un senso di asfissia provato nel mondo così come mi viene presentato.

Proseguiamo il viaggio con Belting e i suoi canoni dello sguardo. Sin da principio mette in chiaro la differenza fondamentale che separa l’immagine Occidentale da quella Orientale, quest’ultima fondata sulla teoria della luce. Ripenso ora ai tuoi lavori, come quelli realizzati per lo spazio di Albumarte in occasione della tua personale «Climax», a cura di Claudio Libero Pisano. Le tue sono geometri disegnate ‘per’ e ‘con’ lo spazio, come se ricalcassero qualcosa di invisibile che collega lo spazio e il mondo e che prosegue oltre, come abbiamo già detto, oltre il ‘finito’. Quale ruolo giocano luce e spazio in tutto questo? 

Lo spazio come la luce, rispondono a leggi fisiche. L’arte islamica, derivata dallo studio scientifico, dall’osservazione dei raggi luminosi, in particolare nella camera oscura di Alhazen e dalla matematica, non si preoccupa delle immagini, semmai parla di forme visive, per comprendere quel che intende, possiamo prendere ad esempio una forma vista attraverso l’acqua, non è la stessa vista attraverso l’aria. Osservo gli spazi come corpi fisici che come tali, rispondono a leggi fisiche. La luce si propaga, pervade lo spazio e soprattutto, ci consente di vederlo ma non è in rapporto con il nostro sguardo, bensì percorre traiettorie proprie.

Belting nota che «nella cultura abbaside, la decorazione ghiri ricopre ogni superficie con una trama fitta di linee o traiettorie luminose, depurando l’occhio di ogni impressione fisica. (…) Gli spazi interni sono organizzati da traiettorie luminose, nello stesso modo la superficie delle pareti appare organizzata secondo disegni lineari. In quegli ordini immateriali sembrano scomparire confini spaziali e pareti, e ciò avviene perché ogni sostanza fisica o materia si sottomette alla luce e alla decorazione». Non posso che notare una profonda affinità con il modo in cui intendo i miei interventi artistici, che mirano a minare i limiti del «finito».

Come è cambiato il tuo sguardo con questa presa di coscienza sui tuoi stessi lavori e come ti aspetti si rovesci in questo percorso che intraprenderai nella tua cultura di origine e nel confronto tra culture e sguardi che inevitabilmente ne scaturisce?

La lettura del libro di Hans Belting è come un viaggio di consapevolezza a ritroso. Mi riporta nel mondo della mia infanzia che sento pervaso da questo sguardo senza limiti e ripercorro, con le scoperte di Alhazen negli anni 1000, le peculiarità di una cultura che ho mangiato cruda per riprendere un’espressione di Picasso che si chiedeva se eravamo destinati a mangiare la meraviglia cruda. La visione antropocentrica che sta dimostrando i suoi limiti pervade ogni contesto. È stato delucidante comprendere quanto la rappresentazione prospettica possa avere foggiato il nostro sguardo imponendo, a livello globale, attraverso la colonizzazione e negli ultimi anni attraverso i media, un sistema culturale e una visione del mondo. Dopo questo periodo di studio e di riflessione, l’idea di ricongiungermi con dei luoghi pregni di cultura islamica significa per me la possibilità di aderirvi di nuovo, con il corpo oltre che con la mente, con tutte le memorie che albergano in me. Immagino un riassestamento, come se avessi vissuto, da quando ho lasciato Algeri, lontana da un centro terrestre dove il mio cuore ha continuato a pulsare mentre nel mio lavoro artistico, riemergeva la cultura che ha plasmato il mio approccio al mondo.

Nella costruzione del tuo progetto hai avuto la necessità di ‘cambiare rotta’. L’impossibilità di andare ad Algeri, tuo paese di origine, e il dirottamento in Marocco e la ripartenza dalla sua cultura islamica è stato un ostacolo oggettivo di questo tuo percorso. Cosa ha significato per te e quali sviluppi potrebbe portare al tuo progetto di ricerca?

Sì, il ritorno ad Algeri si è avverato, nei fatti, impossibile. Per motivi politici, amministrativi. Solitamente, il ritorno è concettualmente impossibile, utopico: non si torna indietro nel tempo. È un tema del quale dialogo dal 2019 con Giulia Fabbiano, antropologa e co-curatrice con Camille Faucourt di una prossima mostra al Mucem, nel 2023, proprio su questo tema, Rêvenir. Expérience du retour en Méditerranée e del quale ho trattato in Real Utopias a Manifesta, a Marsiglia, con Melania Rossi e Bianca Cerrina Feroni. Mi sono urtata a un’impossibilità condivisa da molti, che non possono andare dove vogliono, serve sempre condividere un’esperienza perché si comprende realmente solo ciò che si vive in prima persona. Mi ha insegnato una forma di distacco, superata la tensione. Con Cristina Cobianchi abbiamo dirottato la residenza a LE 18 Derb el Ferrane, nella Medina di Marrakech. Al sottrarsi di un mio desiderio, piuttosto ardente, emergeva una possibilità nuova, libera dal travaglio di mesi legato ad Algeri. Questa apertura mi è sembrata consona al progetto, che cerca una via percorribile in un presente contrastante. Sono in dialogo con La MaisonDAR, che mi avrebbe ospitata ad Algeri e dal nostro dialogo potrà uscire fuori qualcosa da includere al libro che realizzerò con Parallelo42 Contemporary Art, sponsor culturale, che coronerà il mio progetto.

Delphine Valli, The Impossible Present, Le 18 Derb el Ferrane, Marrakech, Marocco
Supporto curatoriale: Melania Rossi | Partner culturali: Marsiglia: Mucem, Dipartimento della Ricerca, Opera Mundi, FAI-AR alla Cité des arts de la rue, Les Ecrans du Large a La Friche Belle de Mai; Rome: AlbumArte | Sponsor culturale: Parallelo42 Contemporary Art.
Progetto realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council (X edizione, 2021), programma di promozione internazionale dell’arte italiana della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura

immagini: (cover 1) Algeri, vista da La MaisonDAR, ph. Abed Abidat, Logo Parallelo42 Contemporary Art (2) Ritratto dell’artista da bambina, Disegno dell’artista, Algeri, 1977 (3) Delphine Valli, «Ciò che si oppone, converge», ferro, Ex Elettrofonica, Roma, 2009, ph. Ramy Leon Lorenco, Schema di David Wade(4) Schema di David Wade, Delphine Valli, «Tensioni in superficie», AlbumArte, Roma, 2019, ph. Luis Do Rosario (5) Delphine Valli, Tensioni in superficie, AlbumArte, Roma, 2019 – ph. Luis Do Rosario, Schema di David Wade (6) Marrakech ph originale Giulia Maio, Logo Parallelo42 Contemporary Art (7 )Schema di David Wade, Delphine Valli, «Real Return From Utopia», tempera a parete e ferro dipinto, misure ambientali, Real Utopias, MANIFESTA13, Marsiglia, 2020 ph. Guido Mencari

 

 

Tags: arsarshakeDelphine ValliinterviewintervistaItalian Council XMaroccoMoroccorepresentationresearchresidency
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