Domani Arshake rilancerà un’intervista di Luca Zaffarano all’artista poliedrico Bruno Munari realizzata nel 1987, l’anno seguente alla sua prima retrospettiva in Italia come artista, a Palazzo Reale a Milano. Luca Zaffarano è oggi una delle persone più qualificate per parlare dell’opera di Bruno Munari. Negli anni ha costruito il sito/archivio Munart.org, dove approfondimenti sulla biografia e sulle opere dell’artista, affiancate da aggiornamenti continui su tutte le presentazioni del suo lavoro, da curiosità, documenti inediti, informazioni sui collezionisti, e molto altro. L’archivio negli anni è diventato punto di riferimento per ricercatori, appassionati ed esperti. Ho conosciuto Luca Zaffarano nel 2013 arrivando al sito nella ricerca di alcune informazioni e immagini da correlare ad un articolo su Bruno Munari. In quel momento Zaffarano era impegnato con il fotografo Pierangelo Parimbelli in una ricerca sulle Macchine Inutili di Munari che è diventata un saggio per immagini e testo pubblicato su Arshake in cinque puntate nel corso del 2014, Bruno Munari e le Macchine Inutili, in concomitanza con la retrospettiva Munari Politecnico che il Museo del Novecento di Milano ha voluto dedicare a Bruno Munari. Tempo fa mi imbatto in un’intervista di Luca Zaffarano a Munari del 1987. Nasce subito il desiderio di poterla rilanciare in italiano e in inglese per poter diffondere il pensiero di un artista visionario più attuale che mai. Lo contatto solo in tempi recenti e la mia richiesta capita nuovamente in un momento particolare: una delle Macchine inutili di Bruno Munari e una serie di Forchette Parlanti sono state appena acquistate dalla collezione permanente del Centre Pompidou a Parigi. Rivolgo a Luca Zaffarano alcune domande per ricontestualizzare il momento dell’intervista, ma anche il suo ruolo e quello dell’archivio nell’aver seguito l’opera e la fortuna critica di Bruno Munari nel tempo, conservandone la memoria in uno dei depositi più ricchi in cui ci si imbatte in un angolo del ciberspazio.
Hai incontrato Bruno Munari nel 1987. In quale momento della tua ricerca lo hai incontrato? E chi era Bruno Munari per il mondo dell’arte e il pubblico di allora?
L’ho incontrato quando ero studente. Allora mi interessavo molto di musica elettronica (mi sono laureato in informatica qualche anno dopo a Milano con l’attuale preside di facoltà, Goffredo Haus, che allora dirigeva il laboratorio di informatica musicale). Munari era per me una figura interessante per le sue capacità di essere interdisciplinare, e il fatto che avesse incrociato al mitico studio di Fonologia della RAI di Milano figure come Berio, Maderna o Cage era stupefacente. Lui scomponeva i colori con le polarizzazioni, loro i timbri musicali con la musica concreta, la sintesi sonora o il piano preparato, entrambi stavano rivoluzionando i linguaggi. Mi piacevano molto i suoi libri, apparentemente semplici, in realtà, molto teorici. Con maestria divulgativa di tipo anglosassone spiegava nei dettagli come procedeva nelle sue ricerche e quali risultati otteneva. Aveva un approccio “open-source” ante litteram. Era un artista che usava un metodo scientifico, arricchito dalla fantasia, ma sempre verificabile. Le sue indagini erano fortemente legate alle ricerche delle avanguardie europee degli anni ’20 e ’30 che poi lui sviluppò ulteriormente in una specie di dialogo a distanza.
Quanto era riconosciuto Munari in Italia e all’estero in quel momento dalla critica e dal pubblico? Quanto è conosciuta oggi la figura di Munari all’estero?
In Italia Munari non è mai stato considerato come artista, credo, fino alla mostra antologica del 1986 a Palazzo Reale di Milano (ed aveva quasi 80 anni), una mostra fortemente voluta da Enrico Baj che trovava vergognoso che la città di Milano non avesse ancora dedicato un omaggio ad una figura importante come quella del collega. Ne è una riprova che ancora oggi, nonostante gli sforzi messi in campo dall’ex direttore Marina Pugliese, al Museo del 900 di Milano non c’è una Macchina Inutile di Munari. All’estero, l’attenzione invece è sempre stata adeguata all’importanza del lavoro svolto. Recentemente ho proposto ad una responsabile del Pompidou l’acquisizione di una Macchina Inutile del 1949 (è stata a lungo appesa nella cucina di casa dell’artista, fotografata in modo esemplare dalla nostra bravissima Ada Ardessi). Ho inviato una mail alla curatrice a capodanno mentre lei era in ferie, pochi giorni dopo ne aveva già parlato con il direttore e il 7 febbraio avevano già messo in programma l’iter per l’acquisizione. Il processo si è concluso in questi giorni dopo il nulla osta del Ministero delle Belle Arti. E’ la seconda Macchina Inutile che entra a far parte della collezione di un museo estero, la prima (del 1952) è stata donata da Pontus Hulten (un grande estimatore di Munari) al Moderna Museet di Stoccolma. Un processo così rapido e veloce penso sia impensabile in Italia e non mi sono nemmeno mosso in questo senso, per sfiducia. E’ un peccato, io penso che nel novecento italiano la figura di Munari sia per importanza paragonabile solo a quella di Marinetti, il nostro Warhol prima che ci fosse Warhol, come lo ha definito l’americana Vivien Greene.
Ti sei occupato di Bruno Munari da molti anni. Il tuo archivio è ormai un punto di riferimento molto importante rispetto alla conoscenza e alla diffusione del lavoro di Munari. Ci puoi raccontare come gestisci l’opera e la memoria di Munari, oltre alla raccolta di un archivio che rendi generosamente disponibile online?
L’archivio deve molto alla filosofia della condivisione della conoscenza e ad alcuni progetti web importanti (dal look minimal ma densi di contenuti) come ubu.com e monoskop.org. L’idea è questa: il mondo dell’arte è opaco, l’opacità serve a confondere, a sostenere operazioni che si configurano a metà strada tra la finanza derivata e l’insider trading. Può non piacere ma il mondo dell’arte oggi ha queste caratteristiche. Mettere online tutta la documentazione su cosa Munari ha realmente fatto permette di comprendere se è stato davvero importante nel novecento italiano e nel panorama internazionale e perché. La condivisione della conoscenza serve a rendere pubblico cosa è stato fatto affinché quelli che vengono dopo possano partire da questi risultati e proseguire, con delle novità, anche minime.
Quali sono i tuoi obiettivi futuri per l’archivio?
Prima di tutto continuare a lavorare al progetto «munart.org» che ormai è diventato una specie di hub, un dispensatore di servizi gratuito, scrivono i curatori (anche quelli importanti, come direttori di Biennali) per sapere dove trovare un’opera in prestito, studiosi che cercano conferme documentali, riviste che desiderano pubblicare immagini, ecc. Un altro progetto molto interessante sarebbe quello di realizzare la retrospettiva che nessuno ha mai fatto, diciamo la mostra di Munari che personalmente mi piacerebbe vedere e che credo possa piacere a molti, partendo ovviamente dall’Italia, ma il mondo dell’arte italiano è ancora molto pre-moderno, non conta cosa sai fare ma chi sei o chi è il tuo sponsor.
Munart.org
immagini (cover 1-4) munart.com, snap shots dal sito (2) Bruno Munari, «Macchina Inutile. Omaggio a Calder», 1949 circa. nylon, fili di ferro, forme di celluloide e alluminio, Collezione privata, Reggio Emilia (3) Munari, «Macchina Inutile», 1949, metallo, perspex bastoncini di legno, Centre Pompidou, Parigi, photograph by Pierangelo Parimbelli (2016)