Rilanciamo qui oggi l’intervista di Luca Zaffarano a Bruno Munari nel 1987, un anno dopo la sua prima retrospettiva che il Palazzo Reale di Milano gli ha dedicato come primo riconoscimento del suo lavoro in qualità di artista, all’età di 80 anni. Le risposte di Munari lasciano trapelare un pensiero oggi più attuale che mai. E’ anche l’occasione di un altro importante riconoscimento del suo lavoro all’estero, ovvero l’acquisizione di una delle Macchine Inutili del 1949 e della serie di Forchette Parlanti da parte del Centre Pompidou di Parigi. L’intervista a Luca Zaffarano pubblicata ieri su Arshake ha introdotto il contesto dell’intervista così come il lavoro che da allora Zaffarano ha portato avanti negli anni con la costruzione di munart.org, un archivio sul lavoro e sulla biografia di Bruno Munari, consultabile online e oggi punto di riferimento per professionisti e appassionati del lavoro dell’artista poliedrico.
Luca Zaffarano: Lei ha lavorato con Luciano Berio e John Cage. Mi può ricostruire quel tipo di esperienza? Molti musicisti hanno tratto motivi di ispirazione teorica e compositiva dalla pittura: l’omaggio a Vedova di Luigi Nono è forse l’esempio più rappresentativo. Ci può raccontare qualcosa riguardo il suo rapporto con la musica?
Munari: Nel 1953 (circa) facevo delle ricerche sulla luce polarizzata per estrarre i colori puri dalla luce stessa e fare delle composizioni a colori mutevoli. Qualche hanno dopo, con alcuni amici di Monte Olimpino, facemmo un film a 16 mm a colori della durata di circa 10 minuti (film che fu poi presentato al festival del cinema di animazione a Knokke, in Belgio, nel 1964, unico film italiano accettato da una giuria internazionale). Il sonoro di questo film fu fatto da Luciano Berio, che avevo conosciuto alla RAI assieme a Maderna, in quel tempo conobbi anche Cage. Avevamo fatto sonorizzare da Berio questo film a luce polarizzata perché i colori della luce sono senza “timbro” come i suoni generati elettronicamente. Purezza assoluta dei colori assieme alla purezza dei suoni elettronici.
Lei ha avuto come punto di partenza il movimento futurista ed ha lavorato molto sull’idea della macchina. Oggi pensando alle macchine e all’elettronica siamo costretti ad osservare che i settori dominanti sono quelli legati alla sperimentazione di tipo militare. Quello che voglio arrivare a sottolineare è che la purezza, la fantasia, il divertimento, l’inutilità delle sue macchine risulta ancora meravigliosamente attuale. Lei che ne pensa?
Certe ricerche portano fuori dalle mode del momento, fuori dal tempo e restano per sempre (si fa per dire).
Ha ancora senso oggi cercare di ‘applicare il judo’ alle macchine? E’ un tipo di approccio consigliabile? Intendo dire è importante saper interpretare ogni cosa da diversi punti di vista in modo da poter riutilizzare tutto?
L’epistemologia è una scienza che studia un aspetto della realtà sotto tutti i punti di vista. Ogni studioso (matematico, artista, biologo, storico, psicologo…) vede la cosa in modo particolare, la somma di queste esperienze aumenta la conoscenza.
A proposito delle sue aritmie meccaniche: lei operava a partire da meccanismi a funzionamento regolare ottenendo dalla casualità del gioco degli elementi una aritmia musicale e dei movimenti. Ci può ricostruire quel tipo di ricerca?
E’ la stessa esperienza di Cage quando suona il suo pianoforte «preparato». L’aritmia meccanica rende le macchine più «viventi», più interessanti, più piacevoli. Meno stupide e monotone.
In suo libro lei ha scritto: «…cerchiamo di scoprire se esiste la possibilità di mettere ordine nel caos delle immagini del mondo di oggi…». Noi viviamo quotidianamente all’interno di una civiltà sovraccarica di segni e di linguaggi tanto da provocare oltre che una saturazione visiva e più in generale dei sensi, anche un disagio profondo. Si perde il senso della realtà e si vive di simulacri (la televisione è una pianta dannosa all’occhio). Tutto questo come può essere controbilanciato, combattuto?
Metter ordine nel caos vuol dire distinguere, classificare, memorizzare. Con questo materiale usato in modo creativo, si può intervenire progettando oggetti più umani.
Lei ha sostenuto che l’arte non è la tecnica. Ma un’arte che non tenga conto delle tecniche del passato e si proponga di crearne o di inventarne delle nuove è un’arte che persegue obiettivi di libertà. E la libertà incondizionata spesso genera paure e confonde, costringe a mettere in discussione, rende insicuri. Lei pensa che sperimentazione, ricerca e arte siano strettamente concatenati?
Penso di si. Siamo tutti insicuri, è molto di più quello che non sappiamo di quello che sappiamo. Ognuno si crea un suo sentiero per cercare di penetrare e di capire la realtà. Poi incontra Lao Tse che gli dice che la realtà non esiste. Noi come individui non abbiamo strumenti per capire la realtà, altri esseri viventi hanno altri strumenti (i pipistrelli hanno il radar, i cani sentono l’arrivo dei terremoti…). La realtà che conosciamo è relativa agli strumenti. Alcuni insetti vivono una sola stagione. Le piante sono i veri abitanti del nostro pianeta: sono più numerosi, si adattano ai climi, loro potrebbero vivere senza di noi e non viceversa.
Lei ha teorizzato il concetto di togliere invece di aggiungere, di semplificare, di arrivare all’essenziale. E’ un principio che sembra generalmente valido, applicabile ai più diversi problemi: da quelli concernenti l’estetica degli oggetti sino a quelli tipici della burocrazia. Questo invito teorico, allo stesso tempo molto pratico, può rappresentare un punto di partenza nel fare arte?
Togliere invece che aggiungere vuol dire arrivare all’essenziale. L’essenziale è il nucleo sul quale operare. A questo punto basta (secondo quello che si vuole fare) o lasciare l’essenziale così com’è (vedi Teorema di Pitagora, senza tempo) o scherzarci sopra o trasformare facendo infinite varianti. Aggiungendo valori soggettivi all’essenziale si fa dell’arte, l’arte è fatta di valori soggettivi, la ricerca cerca valori oggettivi, sposando i due termini in armonia può sorgere l’arte, forse, l’incontro della regola col caso, o l’estro.
Lei ha scritto: «Il pubblico è più propenso a valutare il ‘tanto lavoro’ manuale che ci vuole a realizzare una cosa complicata, piuttosto che a riconoscere il ‘tanto lavoro’ mentale che ci vuole per semplificare dato che poi non si vede». Il suo rapporto con il gusto del pubblico non è mai stato molto felice, anche i suoi ultimi lavori, gli olii su tela, sono una beffa al gusto corrente. Un critico famoso ha sostenuto che nel ‘900 si è generata una frattura insanabile tra i gusti estetici della massa e il lavoro di ricerca degli artisti. Lei che ne pensa?
Penso che gli artisti fanno delle ricerche per scoprire nuove vie dell’arte visiva o altre forme d’arte. Il pubblico va allo stadio. Poi il pubblico pretende di capire le opere dell’artista e si secca molto, crede di essere preso in giro, quando vede cose troppo fuori dalla norma. E’ il pubblico che deve sforzarsi e aggiornarsi per capire. Pensate a Van Gogh al tempo di Leonardo. Cosa avrebbe detto il pubblico di fronte a tali opere d’arte “non finite” e nelle quali erano molto evidenti, in modo volgare, le pennellate di questo pazzo? Poi, invece…
Negli anni ’60 molti artisti si sono direttamente o indirettamente ispirati alla filosofia zen ricercando in questa cultura dei valori da contrapporre a quelli della civiltà occidentale. La sua ricerca si è mossa in questa direzione?
Lo ZEN è quel modo di capire la realtà (di cercare di capire) che tutti usano quando vogliono andare in bicicletta o imparare a nuotare. Nessuno ha mai spiegato con la logica, a un lattante come si fa per camminare su due zampe invece che su quattro. Ma il lattante, grazie allo ZEN lo fa. Allora vuol dire che c’è un modo di conoscere che si attua mediante la “partecipazione globale” di tutto l’individuo, e non solo usando la ragione. Alcuni giornali giapponesi (18 milioni di copie al giorno) in occasione di una mia mostra a Tokyo hanno scritto: Munari è in pieno nello spirito ZEN. Logicamente non si può spiegare a parole che cos’è lo ZEN.
Lei crede che la cultura orientale possa rappresentare ancora oggi un punto di riferimento per la nostra civiltà? Si può immaginare un viaggio ‘inverso’, muovendo da oriente verso occidente?
Oggi più che mai, ci sentiamo cittadini del mondo. Non si tratta più di imporre la civiltà occidentale all’oriente e viceversa, ma di fondere le due culture in una. Questo è quello che i giapponesi stanno facendo. Loro da mille anni hanno il senso della collettività mentre noi siamo ancora individualisti. Un individuo vale per quello che dà alla collettività e non per quello che prende. Una squadra sportiva fatta di individualisti, dove ognuno vuol fare quello che vuole (per paura di perdere la propria personalità) non vincerebbe mai.
Immagini (cover 1) Bruno Munari nel suo studio, Milano, 1988, Fotografia di Atto Belloli Ardessi © Isisuf, Milano (2) Bruno Munari, «Attento», serie di «Forchette parlanti», courtesy «Friends for Design» («Societé des Amis du Centre Pompidou» (3) Bruno Munari, «Ingarbugliata» serie di «Forchette parlanti», courtesy «Friends for Design» – Societé des Amis du Centre Pompidou» (4) Bruno Munari, «Siesta» serie di «Forchette parlanti», courtesy «Friends for Design» – Societé des Amis du Centre Pompidou» (5) Bruno Munari, «Sofisticata» serie di «Forchette parlanti», courtesy «Friends for Design» – Societé des Amis du Centre Pompidou» (6) Bruno Munari, « Tango con casquè» serie di «Forchette parlanti», courtesy «Friends for Design» – Societé des Amis du Centre Pompidou» (7) Bruno Munari a Monte Olimpino, 1966, Fotografia di Ada Ardessi © Isisuf, Milano