Un lavoro giocato nello spazio della vita, tra le trame fitte della realtà quotidiana. Un esercizio di resistenza ai turbinii della disinformazione e ai traumi della massificazione. Ma anche un disegno – un pensiero forte – che affronta lo stato attuale delle cose per cogliere una via d’uscita, una via di scampo da leggi disumane, da una tattica di controllo che produce panico e terrore, da una situazione di ambigua superficialità (Dorfles). Il lavoro di Mary Zygouri fende lo sguardo dello spettatore per introdurlo in un vortice di verità che fa i conti con la storia e con le problematiche attuali per evidenziare i collassi di un regime di potenza – di una società disciplinare (Foucault) – emersa dalla fine della politica e dalla fine dell’etica culturale.
Ad un modello di governo globale che mortifica il potere del sapere e cospira «a svalutare, e quindi a intaccare, ad atrofizzare le facoltà più personali, di orientamento, di intuizione, di gusto, di giudizio dell’individuo [… ]» (Abbate) Mary Zygouri oppone, da tempo, un territorio estetico volto a rieducare il mondo per rigenerare le soglie della riflessione e costruire una discussione sulle cancrene dell’economia, sulla mercificazione dell’esistenza, sulla mortificazione del pensiero critico. Attraverso tecniche e linguaggi di varia natura – video, performance, fotografia, collage, installazione – Zygouri mira, difatti, ad un recupero del senso civile, alla formazione di individui pensanti, alla creazione di una poesia politica e civica che chiede allo spettatore di rileggere la storia quotidiana attraverso interferenze costruttive con il passato per trovare risposte, eventuali ipotesi future.
Nel suo discorso la democrazia (δῆμος / κράτος) – assieme alla verità, all’ἀλήθεια, alla morale e all’economia – non è soltanto un concetto o una semplice voce del lemmario, ma una conquista sociale, uno spazio della vita in cui è il popolo ad avere il potere. È, ancora, leitmotiv di uno scenario allegorico, camaleontico, erotico ed eroico che ristabilisce un contatto con la coscienza individuale, con l’urgenza di una morale da riconquistare.
Antonello Tolve: Vorrei partire da uno dei nuclei della tua ricerca. E cioè dalla volontà di creare, come tu stessa hai evidenziato, una poesia politica e civica.
Mary Zygouri: Dal 2007 il mio lavoro si rivolge a questioni relative all’archivio. Mi interessa cercare espedienti per rendere performativi i vari momenti dell’ archivio, come frammenti e footage, per impiegarli nella creazione e diffusione di riletture della storia e dei significati.
Per esempio, nel 2007 ho costruito il carattere ibrido di Zalouchos, un avvocato e ornitologo che ha vissuto in Grecia all’inizio del XX secolo. Attorno ad episodi della sua vita realmente accaduti, ho costruito una finzione narrativa con cui portare in primo piano, attraverso riferimenti biografici sparpagliati, i sistemi di potere e di controllo instaurati nella produzione industriale.
Recentemente, ho lavorato agli archivi di Maria Karavela, artista greca scomparsa nel 2012, che ha operato, come performer radicale, al di fuori dei circuiti mainstream. In questo caso, mi sono impegnata in una lettura «archeologica» del suo archivio, per estrapolarne particolari contingenze delle sua vita che fossero loro a parlare di una Grecia repressa, in relazione alla censura e alla marginalizzazione della diversità. In generale, non mi interessa necessariamente produrre oggetti estetici. La mia finalità è di rendere visibili le sotto-strutture di diverse realtà sociali e istituzionali, quelle che regolano la vita. Questo equivale ad una ri-scrittura delle storie, un’alterazione delle loro qualità percettive.
Nel tuo lavoro il territorio antropologico ha, assieme a quello sociale, un ruolo fondamentale. In ogni progetto non ti limiti soltanto ad invadere la realtà, a cercare un’aderenza con le cose della vita, ma miri anche a difendere il ruolo sociale dell’artista, un’identità singolare che si affaccia nello spazio della vita per aprirsi alla collettività e manomettere l’immoralità dei sistemi contemporaneo di potere.
Non appena uscita dall’Accademia, mi sono dedicata all’arte professionalmente. Ho cercato di utilizzare come studio lo spazio urbano e quello sociale, con tutte le loro discontinuità, rotture e contraddizioni. In questo senso, ho immedesimato il ruolo sociale dell’artista in una pratica sociale espansa, basata sulla provocazione di interferenze effimere o sistematiche in strutture di potere, quelle che determinano il nostro comportamento quando ci relazioniamo con le istituzioni. Questo mi ha guidato alla materializzazione di nuovi spazi e possibilità per i diversi pubblici.
Un approccio che intraprendo molto spesso è legato alla concretizzazione di particolari condizioni o situazioni all’interno di spazi istituzionali che interrompano il loro normale funzionamento. Per esempio, faccio una performance invitata all’opening di una galleria, o irrompo all’interno di una fattoria di polli con una macchina da scrivere. Ciò che mi interessa nell’ambito di queste «performance parassitiche» è produrre ambienti dinamici che rendano visibili certe logiche e le irregolarità che gestiscono le strutture istituzionali e di potere. In questo senso, questa tipologia di performance parassitiche, non solo disturbano, ma re-distribuiscono e re-direzionano desideri e possibilità.
Prima parlavo di ruolo sociale dell’artista. Qual è il tuo ruolo nelle trame sociali d’oggi?
Quando gli artisti, o produttori culturali di altro tipo, fanno fronte al loro ruolo civico di cittadini, la famosa torre d’avorio può trasformarsi in una piattaforma, in un megafono politico. Assumiamo, in qualche modo, un ruolo politico fuori dai partiti ma certamente addentro alla dimensione pubblica nel senso più ampio del termine.
Apparentemente non c’è un copione per realizzare lavori politici, in particolar modo ai giorni nostri, quando la parola ‘artista’ ha perso molto del suo senso tradizionale. L’arte, comunque, così come qualsiasi altro tipo di produzione culturale, può essere utilizzata come una pratica trasformativa attraverso rappresentazioni mediatiche e attraverso la mobilitazione e la chiamata ad un certo tipo di azioni.
Viviamo in una condizione delineata da restrizioni e costrizioni disciplinari. Quindi è importante per l’arte costruire punti di vista del mondo alternativi, de-naturalizzare discorsi dati per scontati, lottare per restituire il vero significato alle cose, per aprire nuove strade a nuove visioni di noi stessi. Il mio punto di vista è che dobbiamo confidare nella cultura dell’improvvisazione e nel potenziale trasformativo di incontri aperti.
Agli smottamenti della politica di turno (della depoliticizzazione del politico di turno) e alle incrinature civiche – alle cadute libere di una struttura urbana capace di prendersi cura dei suoi abitanti – che contrassegnano la realtà quotidiana, contrapponi un modello in cui lo sguardo lascia il posto alla visione per cadere in uno stato di cecità e mostrare nuove vie per il recupero di una necessaria dimensione civica.
In un certo senso, nel pieno di questa crisi in corso, il gioco dell’arte non è più un gioco: è piuttosto qualcosa che si avvicina alla natura di un evento sociale. Una situazione sociale. L’arte è un campo di pratica sociale differente, ma si pone in qualche modo al confine della realtà sociale quando vi interviene attivamente. Nonostante esista, il limite tra arte e attivismo è molto malleabile e definito in maniera molto precaria. L’emergenza della situazione nella quale ci troviamo oggi pone le condizioni necessarie per riesaminare questo limite.
Un po’ di tempo fa mi hai detto che nel tuo lavoro la micropsicologia e la macroeconomia si incontrano. Ti andrebbe di illustrare questa tua riflessione?
La mia ricerca non solo riflette e costruisce immagini e discorsi di spazi pubblici, ma è influenzato dal mondo che lo circonda in senso più ampio. In altre parole, ho sempre cercato di aprire il mio lavoro al dialogo con il mondo materiale che abito, qualora ci si riferisca a discorsi ideologici che circolano nella società in un determinato momento o alla disponibilità di risorse attraverso cui poter esprimere le mie idee. C’è poi sempre una sorta di relazione dialogica tra le idee che intendo trasmettere attraverso i lavori e le condizioni sociali che scandiscono lo spazio in cui agisco.
In questo senso, il personale, quello che fa riferimento alla dimensione micropsicologica, mantiene sempre una relazione aperta con le questioni che intendo sollevare e che sono legate a quella macroeconomica; si nutrono uno con l’altro. Mi piace aprire i progetti formulando contenuti che scaturiscono da esperienze personali intrecciate nel contesto in cui sono nate, ovvero ciò che determina anche il processo del mio lavoro.
Qual è il tuo rapporto con il pubblico? E quale quello che offri al pubblico attraverso la tua opera?
Cerco, ogni volta, di creare una situazione viva e fluida, piuttosto paradossale o addirittura poetica, dove l’audience sia reattivo, come partecipante o come spettatore, consciamente o inconsciamente. Mi impegno a creare situazioni che si adattino a diverse tipologie di pubblico, anche non specializzato, perché questi si possano immedesimare nelle situazioni politiche che intendo affrontare. Concepisco il mio ruolo in queste situazioni come elemento regolatore, per equilibrare la spontaneità e l’entrata in gioco di una serie di forze che interrompano la normalità quotidiana per trasformarla. In questo senso, la performance diventa per me momento di produzione discorsiva e affettiva.
Valutazione democratica: vendo, compro, permuto è il titolo di una tua performance del 2009. Ma anche parte di un percorso, di un discorso che pone lo sguardo dello spettatore di fronte alla tua ricerca, la ricerca della democrazia (e della libertà) perduta tra gli abissi della corruzione planetaria.
In questa performance ho cercato di indirizzare questioni legate alla democrazia e alla partecipazione civica invocando discorsi e pratiche della sfera economica. I dogmi contemporanei di necessità e inevitabilità sono costruiti sulla base di un discorso economico che, senza scrupoli, porta in primo piano nozioni legati al profit, al tornaconto e all’ottimizzazione. Questo discorso neoliberale dominante, come abbiamo potuto constatare nel mondo, può anche passare oltre ai diritti democratici conquistati con fatica, per assegnare cariche amminsitrative ad esperti specialisti e a tecnocrati. Nella mia performance a Roma al Monte di Pietà mettevo in scena il rituale di uno scambio di mercato che ha preso forma in un’umiliazione pubblica della mia identità greca. Il rituale ha reinscenato una situazione di vendita simile a quella che avviene nel banco dei pegni sotto la pressioni di dogmi legati alla necessità e all’inevitabilità. Con la comunità effimera che si è formata durante la performance ho sperato di intervenire nella città in termini spaziali e temporali. Pellegrinaggio. In questo senso la performance si è trasformata in una protesta politica, tra attivisto e performance artistica.
Accanto alla performance, il video è, assieme al collage e all’installazione, un altro linguaggio indispensabile nel tuo lavoro.
I media che impiego sono di volta in volta diversi, funzionali al concetto che spero di comunicare. In questo senso non c’è nessuna specificità del mezzo; spesso mobilito una varietà di strumenti per raggiungere finalità diverse. Detto questo, tendo a prediligere performance e video. Spesso nelle mie performance – o video performance – utilizzo tecniche, come collage e sculture, per costruire delle scenografie. In questo senso, collage e scultura si sovrappongono e interagiscono con la performance.
Symbiosis e Long Live The King fanno parte di una trilogia sulla contemporaneità. Qual è questo progetto?
Un’altra strategia critica che utilizzo molto spesso si riferisce all’attitudine allegorica; l’allegoria può funzionare come strategia critica o «distruttiva». Nelle allegorie che impersono l’interesse primario è verso l’aspetto visivo, piuttosto che linguistico. L’intenzione allegorica torna al futuro di ieri, come se si sforzasse di ricordare un significato primordiale a lungo dimenticato. In altre parole, l’allegorico per me è un altro modo di ricostruire la storia visivamente e di cambiare, attraverso questo, i modelli precostituiti della comunicazione senza un riferimento diretto alla socialità comunicativa.
Le tue radici tuttavia sono legate alla pittura.
Ho iniziato a studiare pittura e spesso penso al mio lavoro in termini di scomposizione pittorica. La pittura è alla base, l’asse… In termini pratici incontro spesso la pittura nel processo dell’editing del mio materiale visivo.
Con BULLMARKET hai lavorato recuperando alcuni brani della mitologia. Il mito di Narciso, quello del Minotauro e quello del Ratto d’Europa si incontrano e si incrociano in una cartografia estetica che fa i conti con la storia e con le realtà attuali per evidenziare i collassi di un regime di potenza apparecchiata sulla fine della politica e sulla fine di etica culturale.
Il mito del Minotauro si riferisce ad una storia di transazione; è essenzialmente il mito del debito verso il potere, il potere imperante del tempo, quello dei Cretesi. C’è un aspetto legato a questo scambio, una logica economica e di calcolo in questo mito che vorrei portare in prima piano. I dogmi della necessità sono sempre legati alle gerarchie del potere.
Allo stesso tempo, c’è una relazione di dipendenza tra la testa del toro, oggetto della transazione e generalmente preso a simbolo del potere economico, e me stessa. In un certo modo, cerco di riflettere sulla mia soggettivizzazione nell’ambito dei regimi di potere e di quelle società disciplinari a cui fai cenno. Se da una parte non è così semplice sbarazzarsi completamente del potere economico, dall’altra si rende necessario inventarsi azioni che lo possano prevaricare. Io ritrovo questa relazione simbiotica paradossale nel mio coesistere con la testa del toro morto, verso il quale ho un sentimento di attrazione e di repulsione allo stesso tempo, se vuoi. Convivere con la testa decapitata simboleggia un processo catartico verso una possibilie trasformazione soggettiva, senza garanzia di una soluzione positiva.
Non appena mi risveglio ed entro in azione all’inizio del film, realizzo di essere intrappolata in queste relazioni di potere e di scambio. Il tempo di simbiosi è indice delle relazioni di dominio e dipendenza in una co-abitazione claustrofobica. Il film, in questo senso, è un’allegoria che si riferisce al nostro intersecarci con le relazioni di mercato e con tutti i tipi di transazione, ma anche alla nostra necessità di inventare nuovi modi di trasformare queste relazioni. La realizzazione di questo intreccio costituisce probabilmente un primo passo necessario, a livello personale e sociale.
La ricerca di una via d’uscita dal labirinto diventa immagine archetipa di un processo di metamorfosi, di trasformazione. Questo potenzialmente può generare una trasformazione soggettiva così come costituire situazioni oggettive. Questa metamorfosi è anche la nostra opportunità di cambiare la situazione nella quale ci siamo trovati negli ultimi quattro anni.
Un’ultima domanda. Pensi che l’arte possa educare l’uomo (l’umanità) ad una gioia democratica reale? Pensi che l’uomo, attraverso l’arte, possa ritrovare la sua onestà civica? Pensi possa ritrovare la sua libertà?
Per me, quando si parla di arte interventista, la cosa più importante è l’impegno nella creazione di lavoro pensato per portare ad un cambiamento sociale. Si richiede prontezza intellettuale, e anche fisica, per poter prospettare possibilità di futuri diversi, e per poter rendere visibili al grande pubblico le tendenze oppressive. A di là di questo, l’arte dipende molto dalla capacità di comunicare una certa sensibilità e consapevolezza, risultato di un certo impegno con oggetti e idee. Lavori partecipativi hanno il potenziale di creare interesse e di diventare produttivi per il pubblico, nel più ampio contesto delle strutture sociali. Il potenziale civico dell’arte dipende molto dagli ambienti di ricezione così come dalle modalità di trasmissione delle idee. In generale, l’arte può dare prova di essere uno strumento educativo molto importante, nella possibilità di prospettare nuovi modi di auto-realizzazione così come di cambiamento sociale. Ancora una volta, c’è bisogno di impegno.
Immagini (1 cover) Mary Zygouri – Dedalus #8. Courtesy Dino Morra Arte Contemporanea, Napoli, 2013. (2) Mary Zygouri – Dedalus #4. Courtesy Dino Morra Arte Contemporanea, Napoli, 2013. (3) Mary Zygouri – Dedalus #3. Courtesy Dino Morra Arte Contemporanea, Napoli, 2013. (4) Mary Zygouri – Dedalus #6. Courtesy Dino Morra Arte Contemporanea, Napoli, 2013. (5) Mary Zygouri – Vae Victis. Courtesy Dino Morra Arte Contemporanea, Napoli, 2013.