E’ in corso in Trentino un’importante personale di Stefano Cagol, «La forma del vento», una serie di lavori realizzati nel tempo e ad hoc, tutti in relazione al luogo che la ospita, il Castello di San Michele di Ossana, ‘arroccato su uno sperone di roccia ventoso all’incrocio tra le valli, a picco sul corso d’acqua, in un luogo dove la storia narra di antiche miniere’. La neve che brucia, zolle di terra che fuggono in aria, un terreno che viene ancora ferito aprono a molteplici livelli di lettura di tematiche legate ai grandi cambiamenti del contemporaneo, in particolare a quelli legati al clima. Stefano Cagol racconta della ricerca a monte di questa mostra e dei legami con le sue produzioni passate e future, ora che, come vincitore dell’Italian Council, lo aspetta un lungo periodo di residenze, a Berlino e a Tel Aviv / Gerusalemme supportato dall’istituzione straniera Momentum come partner di progetto, e a Roma e Venezia grazie al supporto della IIFCA Fondazione Italia-Israele per la Cultura e le Arti come partner culturale. L’intervista si è svolta via e-mail tra il 7 e il 15 LUGLIO, 2019
E’ in corso al Castello di San Michele di Ossana in Trentino la tua personale «La Forma del Vento. Percezioni sul cambio climatico» dove sono presentati lavori recenti e passati. Come si legano questi lavori al territorio, e in particolare alla storia del Castello?
Ho pensato questa mostra a partire dai molteplici legami con la natura che questo castello rappresenta: nessi correlati alla sua storia o indissolubilmente parte dell’identità di questa architettura, speciale perchè arrivata a noi immutata, con il suo carattere fortemente medievale.
La storia del castello e le pietre che lo costruiscono narrano di rocce ricche di metallo e di antiche miniere nell’area; la posizione strategia all’incrocio di due valli (la Val di Sole e la Val di Pejo) corrisponde con l’essere nel mezzo di alcuni tra i più maestosi gruppi montuosi delle Alpi, l’Ortles-Cevedale, l’Adamello e le Dolomiti di Brenta, con i loro ghiacciai in via di sparizione; infine c’è sua maestà il vento, che da centinaia di anni è il vero re incontrastato di questo maniero. Sulla sommità di questo sperone di roccia, su fino alla cima della torre domina sempre. In paese non si percepisce, ma appena t’inerpichi, appena entri dentro le mura si fa sentire, ti accarezza, ti colpisce, soffia in una direzione, nell’altra, diventa più poderoso, è sempre presente. Proprio il vento è l’elemento che ha dato il titolo alla mostra, che mi ha fatto più pensare. Le masse d’aria si muovono attorno a noi sempre, eppure non ce ne curiamo, ci accorgiamo del vento solo quando si manifesta in maniera distruttiva. Anche in queste zone delle Alpi, soprattutto negli ultimi tempi. Credo il vento sia una perfetta metafora per la percezione che abbiamo del cambio climatico: sta avvenendo, ma diamo attenzione solo agli eventi disastrosi. Non abbiamo mai monitorato il clima quanto adesso, eppure il rapporto con la natura non ci è mai sfuggito come ora.
Sono diversi anni che lavori su temi che riguardano il clima, ma anche i confini. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a un’impennata dell’interesse mediatico rispetto a questi argomenti. In che modo credi che l’arte possa aiutare ad acquistare consapevolezza dell’argomento?
Clima e confini sono due facce della stessa medaglia. Racchiudersi su se stessi significa non essere in relazione con ciò che ci circonda, nemmeno con la natura. Fondamentalmente l’umanità è malata di egoismo, un egoismo cieco e autodistruttivo, perché stiamo corrodendo la zolla di terra sotto i nostri piedi. Finché il nostro giardino è verde e fiorito, tutto va bene, poco importa se altrove il deserto avanza, o se poco lontano da noi il ghiaccio che mio padre chiamava «eterno» si sta dissolvendo. Sono convinto che l’arte sia privilegiata nella capacità di trasmettere concetti molto tecnici attraverso il linguaggio efficace e universale delle sensazioni, dei simboli, delle metafore. L’arte deve comunicare, deve far pensare. Recentemente ho visto il climatologo Luca Mercalli e sono rimasto molto colpito dalla sua attitudine attivista, dal modo in cui metteva in guardia sulle prospettive davvero tragiche che ci riguardano; servirebbe un cambio di rotta dell’umanità perché il processo in corso è paragonabile all’impatto di una guerra mondiale, ma concludeva amaramente mettendo in evidenza che il problema viene ignorato sia da chi decide che dalla gente. Jeni Fulton ha parlato riguardo alle mie opere di «estetica attivista».
Come definiresti la collaborazione e il dialogo tra arte e scienza?
Arte e scienza fanno la stessa cosa attraverso codici differenti: indagano e anticipano quanto avviene attraverso i dati o le sensazioni. Trovo quindi inevitabili incroci di diversa natura. Ho eseguito esperimenti con gli elementi, come mandare in fiamme la neve in un video ora in mostra al Castello, ho innescato il progetto ancora in corso The Body of Energy (of the mind) e realizzato opere utilizzando una videocamera a infrarossi. Durante una residenza nella Valle della Ruhr, ho avuto l’opportunità di confrontarmi con un geologo e realizzato la serie ora esposta New experiments on vacua, che nel titolo cita il fisico Blaise Pascal.
Torniamo per un momento al discorso climatico. Nel tempo, diversi termini sono entrati in voga per indicare il cambiamento climatico: effetto serra, buco dell’ozono, cambiamento climatico, global warming. Oggi alcuni ricercatori parteggiano per l’impiego del termine climate crisis/crisi climatica. Altri, favoriscono il termine geological revolution of human origin (Christophe Bonneuiland). Quanto credi sia importante il linguaggio? In che misura ritieni questo influisca sul comportamento dei cittadini, soprattutto quando filtrato dai media?
Sicuramente sono i media a determinare la diffusione di termini, concetti, fobie oppure, al contrario, a negare l’esistenza non dando rilievo. Nel 2006 nel pieno del delirio da influenza aviaria e da possibile pandemia, ho portato alla 4° Biennale di Berlino Bird Flu Vogelgrippe, che metteva in evidenza come questa paura era stata montata dai media: più che di influenza dei volatili, bisognava parlare di influenza dei media.
Le questioni del clima sono un mosaico di fattori e di effetti, ma – come accennavo prima – non abbiamo mai avuto tanti mezzi per indagarli come ora, non ne abbiamo mai parlato come ora, eppure facciamo fatica a comprendere di cosa si parli, c’è chi nega esista una crisi climatica, chi nega ci sia un’origine umana del processo in corso. Il filoso anglo-americano Timothy Morton definisce il cambio climatico un «iperoggetto», dicendo che è multiforme, mutevole, instabile, vischioso, per questo difficile da afferrare, anche se pervade tutto, è iper.
Tempo fa, in occasione del simposio «Critical Ways of Seeing» alla Goldsmiths University di Londra avevi coniato il termine BE-DIVERSITY con cui indicare: «nuovi modi di essere e di condividere l’essere: un reclamo e la salvaguardia della peculiarità di essere individuale, in opposizione all’omologazione…». Cosa significa individuale oggi?
Pensare con il proprio cervello. Oggi siamo particolarmente influenzabili, i mezzi tecnologici e la Rete ci permettono di vedere le esperienze degli altri, di acquisire le competenze degli altri, di conoscere le opinioni degli altri, ma tutto questo non diviene strumento di conoscenza e scambio per sviluppare un pensiero, bensì il fine ultimo dell’attività intellettuale. Va invertito l’assunto cartesiano «cogito ergo sum» in un «sono quindi devo pensare».
Mi sembra che nuovi termini stiano nascendo per descrivere il profilo della natura ibrida in cui viviamo. Parlavi della qualità viscosa degli iperoggetti di Morton, il giovane critico James Bridle parla di ‘dark age’ e localizza la nostra esistenza in una ‘zona grigia’. Anche rispetto a questi nuovi modi di percepire, come credi debba cambiare lo sguardo contemporaneo per potersi adattare al meglio ai tempi entranti?
Penetrare nell’area interstiziale, infilarsi sotto le increspature. Da parte mia, faccio arte nel mondo reale, non solo nella sfera di vetro delle white box. I miei progetti si muovono negli spazi pubblici, attraverso workshop, usano la Rete, vanno incontro inaspettatamente al passante, la pratica del viaggio diventa parte, invitano alla partecipazione spontanea, proseguono per 20mila chilometri o per anni. Per questo Alessandro Castiglioni attribuisce loro la stessa definizione di iperoggetto, che dà il titolo alla mia personale in corso a Gallarate, al Museo MA*GA.
Nel giorno dell’inaugurazione della mostra al Castello di Ossana, hai deciso di coinvolgere il movimento studentesco nato con Greta Thunberg. Ci puoi raccontare com’è andata?
Decidendo di esporre «Percezioni sul cambio climatico» in un piccolo paese delle Alpi riconosciuto come «Il borgo più green d’Italia» è stato naturale invitare il gruppo Trentino di Fridays for Future. Quando ci siamo incontrati la prima volta per un caffè c’è stata subito sintonia: in loro ho sentito la voglia di porre l’attenzione su un grande problema, ma al tempo stesso il senso d’impotenza per l’impossibilità di suggerire un antidoto.
Quale consiglio daresti per ricominciare a pensare criticamente? Come si può lavorare in questa direzione tenendo conto di una realtà di cui l’informazione è parte integrante?
L’importante non è avere risposte, ma domande. Siamo abituati a cercare online ogni risposta a nostri dubbi e trovare immediatamente la soluzione. Siamo talmente assuefatti a questo meccanismo che la nostra abilità diventa quella di trovare la risposta che vogliamo, che preferiamo. In questo modo muoiono l’obbiettività, il senso critico, soffocati da una sovrapposizione di informazioni, come giustamente le chiami, che possono essere giuste o sbagliate, non importa. Così l’informazione non forma più.
In un suo recente saggio (Novacene) James Lovelock afferma: «ciò che è veramente rivoluzione di questo momento è il fatto che il futuro non saranno gli umani, piuttosto i cyborgs che si saranno auto-costruiti attraverso sistemi di intelligenza artificiale precedentemente costruiti dall’uomo. Loro diventeranno milioni di volte più intelligenti di noi». Come rispondi a questa visione e credi che un equilibrio tra uomo e macchina possa esistere anche in relazione al più ampio quadro ecosistemico della Terra?
Immaginare un futuro con lo sviluppo di una civiltà cibernetica come quella dei Cylons (Cfr. Battlestar Galactica) è affascinante e in qualche modo consolatorio, ma come sempre sopravvalutiamo il nostro ruolo, pensandoci creatori noi stessi di una razza superiore, anche se responsabile poi della nostra estinzione.
Di una cosa sono convinto: in futuro ci sopravviverà la Natura. Quando l’essere umano sarà sparito dalla faccia della terra, la Natura sopravviverà, anche se la stiamo avvelenando, derubando, il tempo rigenererà tutto. E’ un tempo che per noi è inconcepibile e può trasformare un fondale marino tropicale in montagne dolomitiche alte 3400 metri.
La prospettiva della nostra estinzione può essere considerata conseguenza soprattutto dell’aumento esponenziale della popolazione al quale stiamo assistendo, il cambio climatico è solo uno dei tasselli che compongono la nostra interazione con l’ecosistema, e pensare che lasceremo una qualsiasi eredità risponde a una visione antropocentrica.
Confesso che è stato l’estremo nord artico ad aprirmi gli occhi sulla forza ed essenza della Natura. Ero ancora molto legato a una visione incentrata sull’uomo e le sue città, quando nel 2010 ho avuto l’opportunità di realizzare il mio primo artist in residence oltre il Circolo Polare Artico sul confine russo-norvegese. Lì la Natura mi si è manifestata in tutta la sua incommensurabile grandezza. Può sembrare un’ovvietà, ma l’essere umano è piccolissimo al suo cospetto. Ero in totale solitudine, dentro i fiordi delle infinite lande ghiacciate, delle maree, della neve come spilli, dell’enorme freddo, del buio che non finisce, agivo con segnali di SOS, cercavo riscontro nella Natura, in altre persone, nessuno rispondeva, cercavo di penetrare nella Natura con la luce di una torcia, con il calore del fuoco, ma rimaneva impenetrabile.
Mentre sto scrivendo sono allo ZKM di Karlsruhe per la mostra «Writing the history of the future» per i 30’anni del museo (esposta è la collezione del museo con anche un mio lavoro) e mi sono interrogato su cosa rimarrà della mastodontica quantità di dati digitali che stiamo immagazzinando. Ho immaginato un momento in cui si cancelleranno…
Hai una monografica al Castello di Ossana, un tuo lavoro è ora in mostra allo ZKM, ora c’è un’altra importante novità dato che hai appena vinto il bando Italian Council che ti porterà nuovamente in giro per il mondo. Ci puoi raccontare di cosa si tratta?
Il progetto con cui ho vinto l’Italian Council s’intitola «Il Tempo del Diluvio. Oltre il mito attraverso il cambio climatico» ed è un progetto di residenza, credo l’unico proposto da un’artista premiato in questa edizione, che apriva per la prima volta a questo tipo di opportunità. Il fine non è creare un’opera, ma ricercare: sostanzialmente mi pongo domande e mi confronto il più possibile con l’esterno. In questo caso, partendo con partner come Momentum e IIFCA Fondazione Italia-Israele per la Cultura e le Arti, con la collaborazione di Giorgia Calò e Rachel Rits-Volloch, sarò quattro mesi a Berlino, mi sposterò a Roma per un mese, quindi in Israele per due mesi, per andare all’origine del mito, aprendo a numerose altre interazioni in progress con istituzioni, musei e città. La forma, il metodo del viaggio mi appartiene, fin dal 2006, con progetti come Bird Flu Vogelgrippe, Power Station, The End of the Border (of the mind), The Body of Energy (of the mind) e, ora, The Time of the Flood, percorsi con un inizio e una fine e, alcune volte, ancora aperti. Il mio studio-atelier non è chiuso in un luogo, è là fuori. Spostarsi significa porsi continuamente domande, rimettere continuamente tutto in discussione.
Stefano Cagol. LA FORMA DEL VENTO. Percezioni sul cambio climatico
Castello di San Michele, Ossana, Val di Sole – Trentino, 28.06 – 16.9. 2019
Stefano Cagol (Trento, 1969) è un artista italiano. Ha partecipato alla 2° OFF Biennale Cairo, a Manifesta 11 a Zurigo, alla 55° Biennale di Venezia, alla 2° Biennale dello Xinjiang e alla 1° Biennale di Singapore. Nel 2019 è vincitore dell’Italian Council, partecipa alla mostra “Writing the history of the future” allo ZKM di Karlsruhe e il MA*GA Art Museum di Gallarate gli dedica una personale. Tra i premi, ha ricevuto il Visit della Innogy Foundation e il Premio Terna per l’arte contemporanea. Ha studiato all’Accademia di Brera di Milano e ottenuto dal governo canadese una borsa di studio post-dottorato in videoarte presso la Ryerson University di Toronto. Nelle sue opere video, fotografiche, installative e performative, Stefano Cagol affronta i cosiddetti iperoggetti, questioni globali come i cambiamenti climatici, le riserve energetiche e il mutamento della percezione dei confini.