Quest’anno il festival di arte digitale NEoN a Dundee in Scozia spegne le sue prime dieci candeline con una ricchissima edizione con mostre, workshop e un grande convegno dedicati al tema React, sull’attivismo nell’arte digitale. Tra gli highlights del festival si segnala la partecipazione dell’artista italiana Valentina Bonizzi con Opaque Documents – un inedito progetto che riflette sullo statuto complesso delle immagini fotografiche nel difficile contesto di un campo profughi in Palestina. Il progetto, installato nello spazio indipendente Nomas* (9a Ward Road), si sviluppa in una installazione video con sei monitor che attraversano il lavoro dell’artista alla ricerca di un senso collettivo e personale legato alla presenza e all’evoluzione dell’immagine fotografica nel campo profughi di Dheishe in Palestina. Il primo video riprende un’azione di condivisione collettiva delle fotografie di famiglia, risultato di un laboratorio condotto da Bonizzi insieme al collettivo Campus in Camps nel 2014. Il voice over del video è il risultato di un’ulteriore ricerca dell’artista sulla presenza della fotografia nel campo profughi di Dheisheh dal 1970 ad oggi, in cui – come si racconta – nel passato si assisteva alla distruzione fisica delle fotografie private da parte dei soldati e oggi questa “distruzione” viene operata sui materiali condivisi sui social media. I cinque monitor a fianco vedono alcune delle immagini private di alcuni abitanti del Campo osservate da vicino dall’artista nel tentativo di esplorarne il senso e recuperarle.
A questa nuova video installazione si affianca il video Is It yours – in cui un piccolo uccellino volando all’interno di un posto di blocco rappresenta una sottile metafora di una situazione sospesa e irrisolta e nelle parole del breve dialogo tra il soldato e l’artista (Is it yours?/It’s everyone’s) viene evidenziata una qualità’ intrinseca di valori universali che sfugge al controllo umano. Il progetto ci invita a riflettere su gesti ormai diventati quotidiani come fare una foto con il cellulare e condividerla sui social media, sollevando questioni sulla strumentalizzazione di questi ultimi da parte dei governi e del loro costante controllo.
L’opera riflette sul valore civico e collettivo di archivi fotografici portatori di memorie squisitamente private che si fanno condivise, e sul senso di perdita del diritto a ritenere il controllo della propria immagine in quegli archivi di intelligence con i quali governi schedano privati individui e racconta di uno stato di emergenza permanente in un campo profughi in cui la vita, però, va inesorabilmente avanti.
Quest’anno, partecipi al Festival NEoN di Dundee con un nuovo lavoro – Opaque Documents – tratto dalle tue residenze presso il Campo profughi Dheisheh in Palestina. Nel campo hai lavorato con la comunità locale esplorando il valore, il ruolo e la percezione dell’immagine fotografica – analogica e digitale – in un contesto di occupazione e conflitto costanti in cui alla pubblicità’ delle immagini condivise sui media fanno contrasto le immagini intime, private, personali. Come ti sei rapportata verso questa aporia?
Penso che la contraddizione sia intrinseca nell’esistenza del campo profughi e quindi di conseguenza ne facciamo tutti parte nel momento in cui riflettiamo su ciò che è la cittadinanza. La questione centrale che si pone nel campo profughi è come si può dare un senso alla vita quotidiana nel momento in cui non si vuole accettare la situazione politica. Partendo da qui, ho proposto ai partecipanti di Campus in Camps, il collettivo col quale ho collaborato, di lavorare con ciò che ci accomuna: le immagini digitali dei cellulari, tutti noi le produciamo. L’idea era di partire dal gesto della registrazione del quotidiano per fare un percorso insieme sulla politica di rappresentazione. Io gestivo il corso, ma dovevo trovare un modo che permettesse anche a me di ‘disimparare’ il tema e capirlo insieme nuovamente. Durante questo processo, ciò che mi ha diretto verso le fotografie di famiglia, quelle nelle scatole o negli album, è stato vivere con una famiglia nel campo profughi. Un’esperienza che per me è stata necessaria per avere una mia percezione del luogo. I soldati arrivavano nel campo spesso durante la notte, e in qualsiasi momento possono fare irruzione nelle case. Non parlando la lingua per me chiedere di album di famiglia è un modo per conoscersi, ed è stato così, con una conversazione con Abla – la mamma della famiglia che mi ospitava – che ho scoperto che in certi casi i soldati han distrutto le fotografie della loro vita quotidiana, matrimoni, pasti condivisi, davanti a loro. Era anche una violenza di cui non avevo sentito parlare prima nel campo, e che mi ha fatto scaturire una domanda: come si brucia oggi una fotografia? Da qui è partito il lavoro che presento a Nomas* per NEoN.
Quali sono i ruoli degli archivi fotografici e della digitalizzazione delle immagini per la comunità locale stessa ed eventualmente per gli artisti?
Il ruolo per comunità è essenzialmente legato al fatto di poter trasmettere la propria storia e quella del proprio popolo, che è sotto una repressione sistematica dal 1948. Per gli artisti, pensando alla mia esperienza, ha un doppio vincolo: quello della necessità di contribuire a costruire, ri-assemblare e partecipare attivamente a rendere un racconto sparpagliato e non coeso per molti, soprattutto in occidente, più forte e condiviso. L’altro è quello di arrivare a comprendere in base ai luoghi e le storie in cui ci troviamo, che l’idea di archivio e del potere che assume ogni volta cambia. Sta a noi non imporre un’idea preconfezionata, ma rimanere in attesa di una possibile comprensione ‘altra’, che eventualmente, potrebbe anche non avvenire.
Nomas* – dove l’opera è installata – è costituito da vetrine su una strada. Come ti sei relazionata a questo spazio? Pensi che in qualche modo entri nella questione pubblico/privato a cui accennavo?
Da subito ho pensato che lo spazio di Nomas* fosse molto interessate anche se certamente complesso da risolvere, soprattutto per video, dato che per la natura dello spazio, ne viene eliminato il suono. Ho cercato quindi di lavorare con la linea limite che sembra dividere il pubblico e il privato. Pensando alla strada, ai passanti, alle auto, all’idea di finestra, alla città. Questo processo mi ha certamente aiutata ad arrivare a concepire l’opera.
In quattro video realizzati per il progetto, esplori le immagini, zoomando su aspetti laterali, marginali. Questo movimento guida l’occhio dello spettatore in una flanerie visiva obbligata, fino a ridurre le immagini al retino fotografico, a meri pixel, alla perdita di senso. Allo sguardo del fotografo si sostituisce in un certo senso questo processo di esplorazione dell’immagine e in seguito di pulitura e correzione. Ce ne vuoi parlare?
Questa parte del lavoro è stato un modo per ritrovarmi nelle immagini. Spesso nei miei lavori fuoriesce la mia presenza in modo quasi maldestro che mi è utile poi sia per cucire l’opera che per dare un senso allo stare nel luogo o con le persone con le quali mi trovo. Nel caso di Opaque Documents ho impiegato diversi anni per ritrovarmi. Nel 2014 ho creato insieme ai partecipanti di Campus in Camps, l’azione ‘Voicing the Private’ che consisteva nella proiezione degli spazi del campo delle fotografie archiviate e condivise durante il modulo. Nel 2016 invece, tornando in Palestina, ho avuto occasione di intervistare uno degli abitanti del Campo, sulla storia e i dettagli riguardanti la presenza della fotografia nel campo profughi. Ho ripensato al lavoro instancabile svolto per riuscire a fotografare le foto prestate per qualche ora dalle famiglie, per restituirle poi alla comunità di Dheishe Refugee Camp. La domanda che per anni mi è rimbombata nella mente è stata: come si brucia una fotografia? Ho ripreso alcune delle immagini, soprattutto quelle facenti parti della categoria ‘gatherings’, e che rappresentavano manifestazioni o movimenti quotidiani nel campo. Ho quindi iniziato un processo di riparazione delle immagini filmandolo, in modo tale da poter far fuoriuscire ed osservare il mio stesso ‘guardare’ e lavorare attraverso, le immagini. Anche la scrittura sopra l’immagine, l’errore, il fallimento, la riprova: “try again…” riguardano quello che ci accomuna rispetto al quotidiano.
Quest’anno NEoN è dedicato al tema REACT, all’attivismo nell’arte digitale. Quale ruolo pensi possa avere l’artista in relazione all’attivismo, digitale e non? Quale è la sua responsabilità in primo luogo civica e insieme culturale rispetto all’opera e alla comunità coinvolta in un’epoca in cui le immagini vengono diffuse, contaminate e condivise tramite internet, social media e sui media?
Penso possa essere potente ciò che può fuoriuscire quando l’arte si ispira all’attivismo e viceversa ma credo anche che lo slogan “l’arte serve a cambiare il mondo” e che l’artista debba spesso ‘servire’ questa idea, sia diventato una questione che si affronta in modo binario, chi è d’accordo e chi no.
Personalmente credo che le risposte esistano già e l’arte spesso ci può indicare dove sono nascoste, ma non le svela. Anche quando sembra che le opere urlino delle risposte, non hanno comunque la possibilità di accertarsi che vengano ricevute adeguatamente, e se dovesse essere così, sarebbe anche troppo noioso fare arte! Certamente l’elemento che ritengo accomuni l’arte e l’attivismo è la responsabilità nel creare qualcosa che produrrà degli effetti che il futuro dovrà gestire senza di noi, andando incontro ad una possibile catena irreversibile di fallimenti. Per quanto riguarda l’attivismo digitale, sono curiosa di vedere cosa ne faranno le nuove generazioni, perché oramai la democrazia è stata minacciata e messa a rischio dall’attivismo digitale, quello però che serve il capitalismo e a sua volta la produzione di stati populisti di estrema destra. Forse l’unico modo per contrattaccare è demolire questi mezzi, o forse usare gli stessi? Ricordo sempre quello che dice Nidal nella sua intervista: “You can’t make a revolution by tecnology, you cannot.”
Valentina Bonizzi, Opaque Documents, Nomas* Projects, Dundee, Scozia, 11-29.11.2019
immagini (tutte): Valentina Bonizzi, Opaque Documents, 2019, exhibition view, courtesy Nomas Project* Space and NEoN Festival, Dundee