L’artista e teorica Janine Randerson è autrice di Weather as Medium, un libro pubblicato dalla prestigiosa casa editrice MIT per la collana Leonardo. «Tratto il tempo metereologico come un provocatore vivace, un collaboratore e un catalizzatore per conversazioni eco-critiche». Da questo presupposto, Randerson attraversa il rapporto dell’arte con il clima nel tempo iniziando da un’ampia e documentata introduzione al rapporto tra arte e clima nella tradizione, attenta all’impiego degli elementi nell’uso dei rituali così come nell’arte, e più in generale alla sua natura di ‘oggetto-soggetto’ condiviso tra arte e scienza. Il tempo metereologico diventa ‘strumento creativo’, verso un’arte meteorologica, come titola appunto la stessa pubblicazione e arriva a stringere il fuoco su lavori che impiegano dati forniti dalla scienza, e mediati delle strumentazioni scientifiche, queste ultime oggetto di grande attenzione da parte dell’autrice stessa che li elegge ‘compelling entities in themselves’(p. 44). Nella selezione di lavori ed argomenti, emerge l’attenzione al locale. Molti dei suoi racconti testimoniano esperienze di comunità indigene del Global South (in particolare nella località di Aotearoa in Nuova Zelanda, dove ha condotto un progetto di residenza) da far confluire e fluire nel dibattito globale.
I progetti di Hans Haacke, David Mendalla e Walter De Maria sono tra i lavori storici che sollevano il sipario sul tempo come ‘veicolo di trasformazione’. Ciascuno ne offre una angolazione diversa, tutti pongono l’accento sul ruolo del pubblico, quello presente nel luogo fisico, così come quello che assimila i lavori mediati dai vari canali di distribuzione. Nel ripercorrere i lavori Fluxus che impiegano arte e clima individua Cloud Music di R. Watts, David Behman e D. Diamond, dove il passaggio delle nuvole era trasformato in suoni da un processo algoritmico, come fulcro dell’arte meteorologica tardo-modernista e gli ultimi sviluppi digitali.
Nell’era digitale la visualizzazione dei dati diventa centrale. La loro destinazione al pubblico è complice di modi di pensare e di agire a loro volta indirizzati a contribuire ai grandi cambiamenti. D’altro canto visualization is persuasion (Latour, 1986) e Randerson è vicina al suo pensiero, e in particolare a questa sua visione. L’arte si interpone negli interstizi di queste visualizzazioni, offre diversi punti di osservazione, e prepara ad uno sguardo critico delle cose.
Sonorizzazione dei dati (Andrea Polli, Phil Dadson, Joyce Hinterding e Daid Haine); ricerca sul ruolo delle strumentazioni, come quella condotta dalla stessa Randerson, Marco Peljhan, e Anaïs Tondeur, impiego del ghiaccio come strumento empatico (Olafur Eliasson, Francis Alys), chiamata alla partecipazione attraverso forme di attivismo più esplitamente espresso, sono alcune delle modalità di appropriazione del clima attraverso i dati che lo esprimono.
Randerson non tralascia ciò che da sempre si è rivelato di importanza radicale nel passaggio da un’epoca all’altra: il racconto speculativo. What happens when we we reimagine our metereological future? E’ questa la domanda che da vita al capito che chiude il libro e apre al futuro proseguimento. Il libro, ricchissimo di esempi, intraprende quindi una direzione da prendere, un percorso tracciato nel solco segnato dalla necessità di dialogo tra arte, scienza, popolazioni indigene, umani e non umani. «L’arte – conclude Randerson – invita a riflettere sulle origini dell’immagine tecnica. Le visualizzazioni diventano sempre più parte del nostro ambiente e in modo del tutto naturale. Dobbiamo tener conto delle loro condizioni di produzione (p.59).