Si conclude oggi la riflessione di Antonello Tolve sulla società del controllo (vedi Parte I e Parte II)
(…) Sotto la superficie degli eventi visibili si nasconde nondimeno un panorama digitale davvero minaccioso dove «i guru della New Economy – assorbito lo schiaffo delle crisi nel Nasdaq del 2000 – tornano a snocciolare imperterriti le loro false profezie su un futuro liberato dal principio di scarsità, dove tutti potranno divenire imprenditori di se stessi e competere con i colossi della vecchia economia», dove sussistono ancora «le apologie di un’economia del gratuito che gratuita non è», dove «il cinismo dei teorici della wikinomics e del crowdsourcing, che esaltano la rapidità e l’intelligenza con cui le dot.com hanno imparato a sfruttare il lavoro non retribuito di milioni di prosumers» è un fatto quotidiano, dove tracima «l’ipocrisia con cui si celebra quello spirito di cooperazione e solidarietà delle comunità “amatoriali” che sta a fondamento della produzione dei self generated contents (tacendo su chi si appropria del valore creato da queste pratiche)», dove «l’esaltazione dei principi del libero mercato – incarnati al meglio dalla rete – […] fa da foglia di fico al più colossale processo di concentrazione monopolistica della storia del capitalismo», dove «l’annuncio mistificatorio della fine di ogni gerarchia, laddove la presunta “orizzontalità” delle imprese a rete nasconde inediti dispositivi di concentrazione del capitale sociale e relazionale, ma soprattutto nasconde il trasferimento dei rischi e delle responsabilità manageriali su dipendenti, collaboratori esterni e consumatori» rende ostaggi di un congegno dittatoriale, dove dilaga a macchia d’olio «l’interessata difesa d’ufficio della cultura dei digital natives, soggetti ad “amputazioni” sensoriali e mnemoniche che vengono esaltate come vantaggi competitivi, mentre appaiono funzionali a un processo produttivo fondato su nuove forme di “taylorismo digitale”», dove le «promesse di folgoranti carriere basate sulla meritocrazia che vengono fatte ai giovani, laddove il mercato del lavoro, esposto agli effetti di disoccupazione tecnologica, ripetute crisi finanziarie, outsourcing verso i paesi emergenti, offrirò ben scarse opportunità ai rampolli di una middle class impoverita e proletarizzata»[1] continuano imperterriti a lanciare fumo sugli occhi innocenti di nuove generazioni in attesa.
Le inedite forme di sfruttamento del capitale sociale e del capitale umano, la mercificazione e la costante trasformazione delle astrattezze in materiale virtuale ma con effetti reali, porta ad un impoverimento umano – a volte sentito e boicottato senza grossi risultati – incontrollabile, imprevedibile. Tra l’altro anche la libertà d’espressione non ha più nulla di reale, non è più il popolo ad essere lo stato ma soltanto la minoranza degli alti funzionari che «domina incontrastata sulla maggioranza, ossia sui milioni di persone produttive, e dispone tirannicamente del patrimonio nazionale accumulato dalla collettività» (Beuys). La Great Liberty somministrata a larghe dosi dai mammut della finanza e della politica internazionale mostra allora, e in tutto il suo splendore, un risvolto assolutistico che trasforma le pieghe in piaghe e asseconda la polemologia con una dittatura mediale il cui scopo è quello non di distruggere la libertà altrui ma di utilizzarla a buon mercato per portare avanti i propri scopi di ieri, di oggi, di domani.
[1] C. Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, Egea Edizioni, Milano 2011, pp. 11-12.