Arte, critica d’arte, teoria dell’arte ed estetica. Ma anche letteratura e fenomenologia. Fenomenologia degli stili, naturalmente. Renato Barilli, nato a Bologna nel 1935, ha attraversato il panorama internazionale dell’arte con un impianto riflessivo legato ad un metodo, quello di Heinrich Wölfflin, «organizzato in una serie di opposizioni bipolari».
Tra i capofila del Gruppo ’63, Barilli impone il proprio pensiero critico proponendo una struttura che non solo privilegia una galassia elettronica, ma si spinge al di là delle linee generali del neofuturismo, della simultaneità e della «conquista dello spazio e del tempo», dell’esplosione «elettromagnetica», per ritrovare un «contraccolpo», ovvero un «idolo alternativo» che è Giorgio De Chirico. «È De Chirico», avvisa Barilli, «che viene riciclato e di cui rinasce il culto», perché De Chirico è, per Barilli, un «campione del postmoderno», un pensatore che «diceva che non bisogna essere originali ma originari, vale a dire che occorre implodere verso le origini, verso il passato, per farne un uso libero e combinatirio. De Chirico», evidenzia ancora Barilli nella sua rilettura, «rappresenta», ora, «questa diversa anima del postmoderno, cioè il recupero vertiginoso del passato».
Nel ’64, proprio quando approda la Pop Art alla XXXII Biennale di Venezia, pubblica il suo primo libro, Per un’estetica mondana, con lo scopo di indicare un atteggiamento, quello della vocazione mondana e della stretta adesione dell’estetica a un orizzonte terreno e laico. Difatti, mettendo a confronto alcune estetiche sistematiche, Barilli mostra la convergenza di questi sistemi alla luce del criterio della funzionalità evidenziando, tra l’altro, «come in essi si possa vedere una sorta di grande asse di tutta la cultura contemporanea, un asse capace di calamitare e unificare attorno a sé gran numero di soluzioni, di proposte, di intuizioni parziali avanzate nei più lontani e disparati settori, da studiosi, da ricercatori, da artisti di diversa origine e di diversa cultura».
Nel 1966 cura una delle tre rassegne d’Amalfi, Aspetti del «ritorno alle cose stesse», per indicare, con l’ausilio husserliano, un ritorno che significa guardare le cose nel loro costituirsi come fenomeni in relazione alle esperienze vissute (Erlebnisse), in cui esse stesse si danno.
Nel 1970, mentre cura assieme a Maurizio Calvesi e Tommaso Trini la 3a Biennale Internazionale della Giovane Pittura, Gennaio 70. Comportamenti Progetti Mediazioni, pone le basi teoriche dei Nuovi Nuovi. Una linea che non solo raccoglie, intelligentemente, un campo molto ampio di attori, ma segna anche l’incipit di quello che è stato definito un ritorno all’ordine, ai recinti della pittura.
Invitato da Filiberto Menna a partecipare al Convegno di Studi sul Surrealismo presso la Facoltà di Magistero dell’Università degli Studi di Salerno (nell’anno accademico 1972-73), riapre, finalmente, il dossier De Chirico ripercorrendo, in particolare, un romanzo, Ebdomero, del 1929, in cui il personaggio, Ebomero appunto, all’originale privilegia l’originario.
Una riflessione seguita, nel ’74, quasi nell’immediato, da una mostra collettiva, La ripetizione differente (Studio Marconi), attraverso la quale traccia la chiave di lettura di un rapporto dialettico-citazionista nei confronti d’una storia che, di lì a breve, avrebbe lasciato il posto alla condizione postmoderna.
Poi, con una mostra organizzata a Roma (1975) negli spazi dello Studio d’Arte Cannaviello, Barilli scopre e propone il lavoro di Carlo Maria Mariani.
Gli anni Settanta del Novecento sono, però, anche gli anni del concettuale e, per dirla con Filiberto Menna (che accorcia il tiro sulle esperienze europee), dell’analitico. Anni in cui Barilli, attento al panorama artistico attuale, organizza alcune importanti rassegne dedicate alla performance. Al giugno del 1977 risale, ad esempio, La performance oggi. Settimana Internazionale della Performance.
Con Dieci anni dopo. I Nuovi Nuovi (del 1980 – al 1982 risale, inoltre, Una generazione postmoderna), tra gli artisti ritroviamo anche Ontani e Salvo. Due artisti che, «per una certa timidezza nelle scelte, o per la paura di affrettare troppo la promozione di casi giovani» Barilli decise di non collocare in quella prima mostra del 1970. Successivamente, proprio Salvo, «pioniere in assoluto» e «“protomartire” dell’attuale situazione», assieme a Ontani, «suo degno compagno di ventura», sono diventati le nuove leve legittime di una situazione artistica che ritorna, appunto, all’ordine della pittura.
Comparando critica d’arte, critica letteraria, estetica e fenomenologia ai territori della scienza tecnologica Barilli è tra i primi, in Italia, ad occuparsi dell’utilizzo del computer e dei nuovi media elettronici nel campo dell’arte – interesse che nasce anche dallo studio che McLuhan ha proposto tra gli anni Cinquanta e Sessanta, con alcuni volumi ormai classici (The Mechanical Bride. Folklore Of Industrial Man del 1951, Understanding Media. The extensions of man del 1964, ecc.) –, interesse e cifra teorica che individua una naturale propensione del contemporaneo, o meglio del postmoderno, verso una predominanza culturale di ordine materiale e tecnologico. Un discorso che ritorna in Prima e dopo il 2000, apparso nel 2006, in Barilli circumnaviga – dopo aver attraversato (con i due volumi dedicati a Informale Oggetto Comportamento) gli anni ’50, ’60 e ’70 – la ricerca artistica degli ultimi tempi per evidenziare «che l’intero ciclo del contemporaneo, dalle remote origini dovute alle avanguardie storiche su lungo il filo dei decenni, si sia svolto sotto l’ampia cappa protettiva imposta dallo stato della nostra attuale cultura materiale, dominata dalla tecnologia di specie elettromagnetica ed elettronica […]».
Anniottanta (1985), Anninovanta (1991). E poi, Officina Italia (1996), Officina Europa (1999), Officina America (2002) e Officina Asia (2004). Sono i titoli di alcune mostre itineranti che ha organizzato negli ultimi tempi. Titoli che indicano un’apertura e, nel contempo, una inclinazione a tracciare mappe quantomeno storiche e teoriche sulle varie e variegate manovre della realtà artistica più attuale.
AT. Ti andrebbe di ricordare il contributo che hai dato, negli anni ’60, in occasione delle Rassegne d’Amalfi?
RB. L’incontro con Marcello Rumma ha per me una grande importanza, e ricordo ancora con affetto e gratitudine la sua figura. Non rammento come e quando ci siamo conosciuti, ma certo è che, con pieno atto di fiducia verso di me, mi ha invitato a realizzare la prima delle mostre da lui messe in cantiere all’Arsenale di Amalfi, così, nel 1967, mi è stato possibile condurre una rassegna conclusiva sui vari aspetti delle poetiche dell’oggetto, sotto il titolo di impronta husserliana Il ritorno alle cose stesse, dove mettevo la Pop romana, ma anche gli episodi similari rinvenibili a Milano, Torino, Pistoia, e anche taluni aspetti più extra-gaganti rispetto a quelle linee. Ma era chiaro che l’aria stava cambiando, arrivava la stagione del comportamento e dell’invasione dell’ambiente, come, sempre ad Amalfi, e sempre per merito dello spirito organizzativo di Marcello, mi fu possibile puntualizzare, organizzando un convegno della sezione italiana dell’AICA, co-gestito assieme a Calvesi e a Menna. Poi, essendo scoppiato il fenomeno dell’Arte povera, consigliai a Marcello di dedicarle senza indugio una mostra, e fu la prima uscita pubblica del movimento, affidata, com’era giusto, a Celant, mentre io feci un passo indietro, lasciando a lui l’onore di gestire l’operazione. In quegli anni, con ancor più grande coraggio, Rumma mise in piedi una casa editrice, dandone il settore artistico a Menna, quello filosofico ad Aldo Masullo, e a me quello letterario, data la mia competenza pure in questo ambito. E così mi fu possibile far uscire cose molto importanti, la Chiave della poesia di Paulhan, una prima ricognizione sul nuovo cinema, stesa di Paolo Bertetto, infine la grandiosa antologia di Adriano Spatola, Verso una poesia totale. Purtroppo poco dopo Rumma compiva il tragico desto che poneva fine ai suoi giorni, con costernazione di tutti noi.
AT. Nel 1970, hai proposto le basi teoriche dei Nuovi-nuovi. Una linea che segna l’incipit di quello che hai definito essere una ripetizione differente. Da quale intuizione nasce questa tua analisi?
RB. Parlai di ripetizione differente in una mostra di notevole successo tenutasi nel ’74 allo Studio Marconi, dove comparivano gli aspetti dell’Arte povera volti a recuperare il museo, vedi i casi di Paolini, Fabro, Kounellis, e gli inizi di Ontani e Salvo, che in quel momento erano gli unici a lavorare in quel senso, detto anche citazionismo, mode rétro, visto in genere come uno degli aspetti del postmoderno. Ricordo che proprio a Salerno ero venuto, nel ’73, a proporre una rilettura di De Chirico, vedendo in lui il campione della rivisitazione sistematica del museo
AT. Ontani, Salvo e Mariani. Cosa ha rappresentato, per te, questa triade artistica?
RB. Dopo Ontani e Salvo, il terzo a mettersi per la strada citazionista è stato Carlo Maria Mariani, credo di essere stato il primo a riconoscergli questa caratteristica, in seguito su di lui è stata costruita l’ipotesi dell’Anacronismo. Io a lungo sono stato favorevole a uno sguardo d’insieme che tenesse uniti i vari aspetti del fronte citazionista, prendendo atto che stavano arrivando Chia, Clemente, Cucchi e Paladino, su cui poi Bonito Oliva avrebbe costruito il gruppo della Transavanguardia, ma in modo del tutto affine procedevano pure Faggiano, Spoldi, Barbera, Benuzzi, Jori, Levini, Salvatori, Mainolfi, altri ancora. Solo quando ABO pretese di fare dei Transavanguardisti i primi della classe, mi sentii obbligato a proporre i Nuovi-nuovi per tutelarne le ragioni, molte volte prioritarie, sia nel tempo che nella qualità.
AT. I fattori d’ordine materiale-economico-tecnologico sono ancora attuali e presenti nell’arte contemporanea?
RB. I fattori di ordine materiale-economico-tecnologico sono fondamentali per interpretare qualsivoglia epoca e cultura, e non solo per gli aspetti artistici ma per ogni altra articolazione culturale. Ho intenzione di scrivere un saggio globale adottando questa chiave, ed applicandola in un lungo periodo, dall’arcaismo greco alle avanguardie storiche, abbracciando così 2.500 anni di eventi artistici.
AT. Oggi, dalla costola del critico si è andata, man mano, generando e affermando una nuova specializzazione, quella del curatore. Qual è il tuo parere su questa nuova figura professionale?
RB. Mi sono pronunciato molte volte contro i rischi che le sorti dell’arte contemporanea restino affidate solo alle mani dei curatori, che in genere non hanno il coraggio delle scelte, sono succubi dei valori imposti dall’opinione pubblica o dalla moda, si preoccupano solo di invitare i soliti noti, con la paura di sbagliare se si affidano ai loro gusti.
AT. E tra le nuove leve critiche o curatoriali?
RB. È imbarazzante pronunciarmi.
AT. Secondo te verso quali orizzonti è proiettata oggi l’arte?
RB. Sono del tutto ottimista, oggi l’arte è prodotta da tutti i continenti, e non è più di esclusiva pertinenza di noi occidentali, fra l’altro è sempre più fitta la partecipazione delle donne. Gli strumenti della fase post-concettuale, e cioè foto, video, scrittura, istallazioni, sono divenuti di uso largo, planetario, il che però non provoca la temuta globalizzazione, o meglio questa c’è senza dubbio a livello di strumenti, uguali Per tutti, però i vari popoli li applicano a una riscoperta delle proprie radici, e ne viene quindi una sintesi con la riscoperta dei valori locali, nel fenomeno che viene detto del localismo.
AT. E la critica d’arte?
RB. Arte e critica sono strettamente gemellate, procedono insieme. Mi pare del resto che tra i miei colleghi ci sia una buona consapevolezza circa questo destino glocalista che ci attende.