La mostra/installazione del giovane artista americano Michael Manning presentata a Roma negli spazi di cura.basement è una stimolante riflessione sulle nuove realtà creative. I riflettori sono accesi sulla contemporaneità più prossima, su forme di espressione scaturite con naturalezza da artisti che si trovano a vivere e respirare in una nuova era, spesso indicata nel generico e discusso termine di postinternet.
Internet è nato per essere un sistema di comunicazione rivoluzionario, prima degli anni Novanta ristretto a pochi eletti, e destinato a generare, prima e poi – dopo il suo primo lancio ad un pubblico allargato – un mondo liquido da vivere in parallelo a quello reale. Oggi questo mondo liquido ha sconfinato in quello fisico per instaurare uno scambio che la biologia definirebbe di tipo osmotico. Internet ha invaso tutti gli angoli della nostra esistenza; da immaginazione e creatività si è esteso al fare quotidiano, è penetrato all’interno dell’epidermide, ne ha annullato d’un fiato la sua natura di confine tra corpo e mondo, li ha diluiti – piuttosto – l’uno nell’altro.
E’ questo il contesto in cui è nato e cresciuto Michael Manning. Ed è anche questo il motivo per il quale sembra istintivamente prendere le distanze dal termine postinternet. Internet è infatti il suo liquido amniotico così come quello della nuova dimensione nella quale siamo inglobati e dove siamo destinati a re-imparare ad orientarci, ad affinare le facoltà percettive, tutte, ad attivarne di nuove per poter individuale le strutture invisibili dell’informazione che si sovrappongo alle tradizionali griglie geografiche estendendole a quelle disegnate «nel» e «dal» mondo liquido. Non il tempo «dopo» internet (post) ma il tempo «di» internet.
Questa elasticità per Manning è innata. Si muove con naturalezza dentro e fuori della rete, i suoi lavori rimbalzano dal mondo effimero della comunicazione e dell’immagine alla sperimentazione della materia e alla sua relazione con lo spazio fisico. Le sue produzioni sono state a volte realizzate in incognito negli spazi dei negozi Microsoft, trasformati in atipici studi d’artista. Qui sono nati i suoi dipinti creati su tablet, di cui alcuni sono presenti nello spazio di cura.basement, stampati in 3D su lino. Video digitali e stampe ambientali, come l’immagine open source di un surfista presa da Internet e stampata su tende di lino e sul muro (Blue Magoo, 2015), orchestrano un dialogo e si pongono in relazione tra loro e con lo spazio. E allora potremmo anche proporre a Manning di poter calzare [con prudenza] il termine di postinternet art, non per inscriverlo in un genere; per descrivere – piuttosto – il paesaggio, la «condizione» in cui i lavori nascono e che esprimono. Per fare questo potremmo accodarci alla definizione che ne ha dato ultimamente l’artista Marisa Olson che Internet e il suo prestarsi a funzione creativa lo ha vissuto in tutte le sue fasi, e che dal 2006 ha lanciato il termine postinternet art in discussioni e forums tutt’oggi in corso mettendone sul tavolo le varie e necessarie ri-negoziazioni. Olson non ha interpretato il prefisso «post» per intenderlo nella sua accezione di sequenza temporale (cosa che più facilmente sembrerebbe alludere il termine post-internet, con il trattino), quanto «una condizione che (a) non potrebbe esistere prima di internet (in termini tecnologici, fenomenologici ed esistenziali) e (b) esiste in qualche modo nell’influenza di internet. (…) E’ un arte che si incarna nelle condizioni di vita della cultura del network, art after the internet» (M.Olson, Art and The Internet, Black Dog Publishing, 2013)
Lontani dall’intenzione di categorizzare, in particolare contenendo la riflessione del lavoro su Michael Manning nella piattaforma Arshake che nell’ibridazione di generi e linguaggi ritrova la sua bandiera, chiediamo direttamente al giovane artista di esprimere la sua opinione a riguardo e in relazione al suo lavoro. I visitatori della mostra saranno poi in grado di formulare la propria opinione attraverso i canali empatici, lasciando che in questi scorra l’armonia distesa che dai singoli lavori e dal loro insieme rimbalza allo sguardo, così come l’inquietudine che la fitta rete di riferimenti in cui la mostra è tessuta trasmette all’emisfero razionale stimolandolo a procedere verso la conoscenza di qualcosa che ci è ancora in parte ignoto, iniziando con il porci domande sul contemporaneo più prossimo.
Elena Giulia Rossi: Cosa significa per te il termine post-internet? Marisa Olson ha definito il concetto come «art after the internet». Sei d’accordo con questa affermazione?
Michael Manning: Credo che sia importante capire che il post-internet come movimento non esiste nella forma coerente e organizzata tipica delle precedenti correnti artistiche (come il dadaismo, il surrealismo, ecc.). Si tratta piuttosto di artisti indipendenti che stavano lavorando nello stesso momento e che hanno fatto amicizia su Facebook. Alcune persone ritengono che si tratti di una particolare forma d’arte che utilizza la manipolazione della fotografia documentaria, commentando la distribuzione delle immagini online. Altre, solitamente speculatori di mercato dall’aria, utilizzano questa definizione come termine generico per descrivere qualsiasi forma di arte che sia in qualche modo coinvolta con la tecnologia.
Lo scrittore Gene McHugh, con il suo blog chiamato – appunto – «post internet», e iniziato nel 2009-2010, ha dato probabilmente la migliore interpretazione del termine. Personalmente, la parte che preferisco dei suoi scritti di questo periodo è il riconoscimento dell’ambiguità insita nel termine. Il lavoro di McHugh è una sorta di documentazione personale del percorso di avvicinamento alla comprensione del termine nel momento in cui la sua importanza era in crescita, acquisendo subito consapevolezza che cercare di attribuire una definizione specifica era una missione impossibile.
A mio avviso, il termine, piuttosto che nella sua accezione cronologica dettata dal post, va inteso come una modalità di relazione sociale con internet. Questo significa comprendere internet e la tecnologia ad un livello il più macroscopico possibile e «operare» in un mondo dove internet, le sue potenzialità di connessione e i meccanismi tecnologici sono ormai assimilati. Riguarda quindi le cose interessanti ed esaltanti a livello sociale, perché le persone hanno ormai raggiunto un grado tale di comprensione della tecnologia e dei network da esserne ormai annoiati.
I tuoi Microsoft Store Paintings sono concepiti in luoghi e momenti particolari, ovvero nei negozi Microsoft. Partendo da questo presupposto, che significato hanno i dipinti per te in relazione all’atto della loro creazione?
Credo che più che un tentativo di commistione tra pubblico e privato, i Microsoft Store Paintings siano opere concepite per rivelare alcuni dettagli sulle risorse finalizzate alla produzione culturale, o persino commerciale. Il dipinto esiste come oggetto che rivela le modalità con cui la tecnologia e internet ci hanno consentito di trovare nuove risorse e di applicarle al processo produttivo. Questo concetto spazia dalle pratiche di esternalizzazione impiegate dalle multinazionali alla lean logistic e alla gestione delle catene di distribuzione di aziende come Amazon, fino ad arrivare all’appropriazione di un computer pubblico per produrre un’opera d’arte.
Quale credi che sia l’attuale relazione tra spazio pubblico e privato?
Non ne sono sicuro. Non sembra esserci molta differenza tra i due concetti. Non sono più molto interessato ai concetti dei Microsoft Store Paintings, quindi credo di essere attualmente orientato, per quanto possibile, verso gli spazi privati più stimolanti e fruibili, ma in un modo in cui questo non sia compromesso dalle pratiche omnicomprensive manifestamente draconiane utilizzate dalle aziende del settore della tecnologia e dai governi.
Qual è il tuo rapporto con la pittura tradizionale? Che significato ha per te un dipinto post-analogico?
Rispetto la pittura come forma d’arte, ma per me è difficile comprendere come le persone, in questo momento della storia, possano considerare i dipinti come la migliore forma di espressione possibile, indipendentemente dai loro interessi concettuali o artistici.
Nell’ambito del mio lavoro, il dipinto è una sorta di «vascello» che mi consente di trattare concetti di più ampio respiro ai quali sono interessato, a prescindere dal mezzo. In questo senso, si tratta esclusivamente di uno strumento a mia disposizione, funzionale ad un lavoro più ampio, proprio come i video, le installazioni, ecc.
La pittura post-analogica non ha alcun significato per me. È un assurdo guazzabuglio di linguaggi artistici utilizzato per discutere un trend della pittura post-moderna, da Warhol in poi.
Michael Manning, Cura.basement, Roma, fino al 31.07.2015
Immagini (tutte) Michael Manning, installation view, cura.basement, Roma 2015