«Se il nostro atteggiamento verso le opere d’arte del passato muta col mutare della nostra stessa impostazione percettiva e dei nostri condizionamenti ambientali, non bisognerà trascurare il fatto che molto spesso a mutare il nostro atteggiamento verso opere d’arte coeve può essere invece il presentarsi di nuove tecniche e la scoperta di nuovi media»[1].
L’ammonimento di un Dorfles sempre attuale sembra essere particolarmente vivo ed influente per Micol Assaël, artista italiana trentacinquenne trapiantata in Grecia, che da più di un decennio ormai frequenta i palcoscenici più illuminati del sistema dell’Arte contemporanea, dalle Biennali di Venezia, Berlino, Sidney e San Paolo, alle personali alla GNAM, al Palais de Tokyo e alle Kunsthallen di Basilea e Kassel. Dal 31 gennaio, negli spazi milanesi sapientemente recuperati dell’Hangar Bicocca, è protagonista di una mostra interessante ed ostica (aperta al pubblico fino al 4 maggio) non quanto il suo impronunciabile titolo: ILIOKATAKINIOMUMASTILOPSARODIMAKOPIOTITA.
Un’ibridazione di grecismi, dadaista nella voluta impossibilità di significazione, una non titolazione che introduce lo spettatore a una condizione di disagio intellettuale, che nell’esperienza diretta diventa anche e soprattutto sensoriale. Percezione, condizionamento ambientale, nuovi media sono capisaldi essenziali nell’indagine di Assaël, sempre sospesa tra arte e scienza, che, in questa occasione, propone un autentico viaggio alla scoperta della multisensorialità, attraverso una fruizione diretta, controllata e per alcuni addirittura sconsigliata, oltre che impegnativa per uno spettatore il cui coinvolgimento è sempre più carattere imprescindibile della dimensione espositiva contemporanea. Cinque ambienti site-specific, segnati dall’utilizzo di materiali che evocano il mondo industriale (metallo, cemento, ferro, legno), colorati da sonorità quotidianamente deuteragoniste, come un rumore di fondo, il suono di un motore, il ronzio di un’ape, il fragore di un generatore, e cornici di processi fisici ed elettro-fisici, intesi dall’artista come manifestazioni della natura.
Vorkuta (2003) è la rievocazione del gelo siberiano conosciuto direttamente dall’artista, all’interno di una cella che raggiunge la temperatura di -30°C, arredata con un quadro elettrico e una sedia termo-impostata che raggiunge i 37 °C. Untitled (2003), protagonista alla Biennale di Venezia del 2003, propone un ambiente fortemente ventilato, all’interno di una struttura concepita interamente in ferro, completata da un tavolo, un letto e un armadio, sospesi a 4 cm dal suolo. In questa intercapedine e arrampicati alle pareti cavi elettrici liberi provocano scintille. Mindfall (2004-2007) è formata da un container di recupero, all’interno del quale il frastuono intermittente di 21 motori elettrici si unisce alla pesantezza dell’odore che ne deriva. 432 Hz (2009) è il più accomodante degli ambienti. Struttura in legno arredata con telai contenenti disegni in cera, che si illuminano alla presenza dello spettatore e riproducono il ronzio delle api, che corrisponde esattamente alla frequenza indicata dal titolo dell’opera. Sub, concepita appositamente per lo spazio della mostra, è realizzata attraverso l’assemblaggio di espositori in vetro e alluminio progettati dall’artista e utilizzati per mostrare i disegni della serie Inner Disorder (1999-2001). Osservando dall’esterno o entrando all’interno di una struttura trasparente, si assiste al fenomeno della nascita di cariche elettrostatiche prodotte da un generatore Kelvin.
[1] G. Dorfles, Le oscillazioni del gusto, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1970, p. 64.