Segnato da un’atmosfera che trasforma esteticamente i documenti in monumenti, in totalizzatori di conoscenza capaci di contenere al loro interno ogni minima traccia lasciata dagli uomini, il lavoro di Mrđan Bajić (Beograd, 1957) si presenta come un flusso di idee, come un contenitore che invita a riflettere e a riaccendere la coscienza collettiva, come un terreno che assorbe la memoria e la storia, ma con il desiderio di offrire non tanto moralismi, quanto piuttosto preziose albe di una verità che «di fatto è fragile ma irreversibile, ostinata, resistente agli urti» della falsità.
Attivo sin dai primissimi anni Ottanta del secolo scorso (del 1983 è la sua prima personale, organizzata alla Galerija Dom Omladine di Beogradt) Bajić muove dai venti rivoluzionari dell’arte nati in uno scenario multiculturale che mette da parte le ideologie, per caricarsi – anche se per poco tempo – di nuove idee e tendenze, per esprimersi liberamente, per aprirsi al dibattito internazionale.
Dopo le guerre balcaniche che hanno disgregato con la morte di Тito (4 maggio 1980) la Socijalistička Federativna Republika Jugoslavija, dopo lo scandalo dell’Agrokomerc (1987), dopo l’ondata nazionalistica di Milošević legata pretestualmente al Memorandum dell’Accademia Serba delle Scienze (1986) e dopo i massicci bombardamenti della North Atlantic Treaty Organization (NATO) l’artista muta radicalmente prospettiva e avvia un percorso riflessivo in cui etico, estetico e politico – l’uomo è un animale politico, ha avvertito Rancière nel partage du sensible – si intrecciano a ricordi indelebili che tornano tra le pagine di un racconto plasticamente raffinato il cui volto non è segnato unicamente dal terrore ma anche aperto al dialogo planetario, illuminato dal desiderio di evocare, di ricostruire, di riprendere in mano le speranze: e senza dimenticare.
Se nell’arco del ventennio 1987-2007, una profonda volontà archivistica (avviata già nel 1980) porta Bajić a catalogare la vita di un mondo ormai in rovina per raccontare i miracoli e i traumi della nuova sfera geopolitica (postcomunista, postsocialista, postmoderna) mediante cicli di lavoro che si sovrascrivono, si compenetrano o nascono l’uno accanto all’altro – Trash (1987-2007), Krv, znoj i suze | Blood, sweat, and Tears (1997-1998), Spomenici | Monuments (1997-2001) e Jugomuzej / Yugomuseum (1998-2004) – con lo scopo di registrare il clima culturale del momento e di definire una complessa strategia di destrutturazione, di dissoluzione, di sovvertimento dei convenzionali stilemi scultorei, a partire dal 2005 il discorso si fa più serrato, più marcatamente aperto all’ostranenie (остранение), allo spiazzamento, allo straordinario stordimento dei sensi.
Di questo periodo storico il progetto Jugomuzej è, ad esempio, catalogo della memoria, raccolta di materiali in cui capitalismo e comunismo sono uniti dal filo tagliente dell’ironia per mostrare l’instabilità sociale, l’andatura barcollante di un mondo che si sposta repentinamente dal “sogno comunista” al “paradiso consumistico” del controllo totale. Progetto utopico di un museo virtuale nel quale «sont collectionnés des objets, des personnalités et des situations de l’importance historique pour la formation, l’existence et la désintégration de la Yougoslavie», Jugomuzej rappresenta un mondo che con il futuro alle spalle associa la catastrofe alla costruzione di un nuovo il cui avanzare ricorda con evocativa lucidità i fatti, i mesi, i giorni, le ore.
Definiti da Lidija Merenik skulptotektura, i modelli linguistici plasmati da Bajić, e in particolare a partire dal 2005 – anno in cui l’artista chiude appunto un Backup capace di abbracciare e contenere tutto il suo lavoro («appunti, bozzetti, testi, opere perdute, opere cominciate, opere scartate, opere completate si intrecciano e si collegano direttamente l’una all’altra, come «frammenti di una caccia al significato, da epoche del passato che sono già incapsulate in una bolla di circostanze ora incomprensibili») – macinano il senso comune e, senza pudore, lanciano sulla piattaforma dell’arte dispositivi altamente ironici, capricciosi, capaci di scuotere il sistema nervoso della società.
L’utilizzo sistematico di didascalie – da intendere come parti integranti del discorso, come elementi indispensabili, come tracce indicative – rappresenta inoltre per l’artista un collante indispensabile a creare un rapporto tra coscienza e conoscenza, un risveglio fertile dove il reale diventa l’objet d’une fiction intesa come funzione utile a cogliere e decifrare la realtà. La classe ouvriére va au Paradise (2012), I Like America and America Likes Me (2014), Tatlin (2016), l’imponente Globus – Velika Skulptura (2017-2018) o Germania (2017-2018) sono titoli tra cui è possibile trovare alcune citazioni che richiamano alla memoria nomi dell’arte contemporanea come Joseph Beuys e Vladimir Evgrafovič Tatlin (che perseguiva l’obiettivo di edificare il bene dell’umanità) o anche momenti ciclici – è il caso di Facciamo finta di niente (2014, 2016, 2017) che dà il titolo a questa mostra – pronti a creare uno spostamento sensoriale, una oscillazione elegante dal ludico al tragico, dal crudele all’ironico, dal melanconico arridere al beffardo dissacrare, demitizzare, demistificare i grandi racconti, i grandi abbagli della collettività.
Automobili, pupazzi e bambolotti infantili, calchi, granate, lacci, globi e palloni, coccodrillini, autobus o spiritose vanitas invadono la scena per tratteggiare un discorso plastico e polimaterico dove contesto e causalità si uniscono grazie a un – sempre abile e generoso – cortocircuito che mostra il volto di una ironia spigolosa, effervescente. Con inclinazioni surreali e a tratti metafisiche che non si abbandonano mai al sorriso amaro ma si sviluppano mediante una ars combinatoria alla cui base è la volontà di amplificare un flusso inarrestabile, una potenziale Gesamstkunstwerk legata al simbolo inteso nella sua essenza etimologica (συμβάλλω), di mettere insieme le parti di un ragionamento infinito sulla memoria, Mrđan Bajić propone oggi progetti dove il ricorso a tecniche quali il collage e l’assemblage si fa sempre più urgente, sempre più legato a una volontà di ricucire alcuni strappi storici e contestualmente di creare condensazioni visive, sapienziali spostamenti oggettuali, disorientamenti che seducono, fino a spingere in una illusione che ammalia e distrugge l’illusione stessa.
Mrđan Bajić, materia e (è) memoria è il testo di Antonello Tolve che accompagna la mostra
“Facciamo Finta di Niente”
Mrđan Bajić
GABA.MC, Accademia di Belle Arti di Macerata, 05.10 – 30.11.2018
immagini (all): “Facciamo Finta di Niente”. Mrđan Bajić, GABA.MC, Accademia di Belle Arti di Macerata, exhibition view, photo: Matteo Catani