Sfido chiunque a leggere «Games of Empire. Global Capitalism and Videogames» e poi a guardare i videogiochi con gli stessi occhi. Il testo è uno strumento d’interpretazione lucido, chiaro e puntuale, dichiaratamente in ottica politica per i games studies, che parte dalla teoria dell’hypercapitalism del XXI secolo enunciata da Michael Hardt e Antonio Negri.
Ma andiamo con ordine: prima di tutto cosa si intende per Empire? Il cosiddetto Impero altro non è che la governance capitalista globale, quella complicatissima macchina avente come fine ultimo il profitto e il cui funzionamento dipende principalmente da due fattori: il militarismo e il mercato. All’interno del marchingegno si muovono due individui tipo: il soldato-cittadino e il lavoratore-consumatore. Dal loro comportamento etico e commerciale dipende la vita dell’empire: Alla luce di questa premessa è facile interpretare l’universo videoludico come incredibilmente equivalente a quello reale. Second Life ne è il paradigma: città brulicanti di individui pienamente immedesimati all’interno di una soggettività virtuale rispondono a bisogni fisiologici e socio-economici altrettanto virtualizzati. Così nell’iperspazio globale della rete può accadere di passeggiare per un centro commerciale, nel quale note multinazionali hanno già acquisito spazi innescando meccanismi pubblicitari, dove si può spendere denaro virtuale comprato online tramite denaro reale, e nel quale ci si incontra perché la piattaforma funziona come un dispositivo per pubbliche relazioni. E se già questo non fosse abbastanza per dire che i videogiochi esaltano un sistema capitalista globale dannatamente reale, potrei citare la possibilità di arruolarsi direttamente sul sito dell’U.S. Army tramite l’apposito link di America’s Army, il videogame che ha appena visto voi prodi marines sgominare terroristi tra le montagne dell’Afghanistan. Aggiungiamoci anche che potrebbero esserci sviluppi consistenti a tutto questo: pensiamo all’industria cinematografica, al merchandising, ai dispositivi, a tutto l’indotto derivato. Stiamo quindi ancora parlando solo di giochi?
Molti altri videogames, come World of Warcraft e Grand Theft Auto con poche varianti, utilizzano gli stessi meccanismi: l’immedesimazione in una identità virtuale, l’interazione con altri soggetti e con l’ambientazione, l’evasione dal reale, il riproporsi di situazioni a sfondo commerciale, tra proprietà privata e differenze di classe.
Ma se i videogiochi riproducono fedelmente la vita nel capitalismo globale, allo stesso modo possono attuare meccanismi di guerrilla e infowar, proteste e scioperi, riversando nel virtuale le stesse istanze politico sociali che si riscontrano nella realtà. Volendo dare uno sguardo al dietro le quinte di un videogioco, infatti, vedremo operai, programmatori e creativi, impiegati anche per 20 ore al giorno – non sempre pagate – nel cosiddetto lavoro immateriale, quello cioè che non crea prodotti concreti, ma informazione, conoscenza, relazioni. Questa forma di lavoro egemonica del capitalismo è seguita alla rivoluzione informatica: strategica, pervasiva, accentratrice.
Straordinario pensare come e quanto i videogames siano diventati parte integrante della media culture contemporanea. Dalla loro invenzione in ambito militare USA negli anni ’60 -‘70, gli anni delle controculture, di contestazione e di sperimentazione con musica, droghe e digitale, fino al loro sviluppo in ambito accademico e industriale, sotto la minaccia pendente della guerra nucleare con l’URSS, per passare infine, verso la fine degli anni ’70, alla cyber-cultura e al freeware, imboccando la strada dell’intrattenimento e della scienza informatica.
Maggiormente diffuso nei paesi industrializzati – naturalmente non è un caso – il mercato dell’industria videoludica è un aspetto dell’emergente capitalismo fordista postindustriale. Un sistema nel quale la cittadinanza economicamente più svantaggiata ed esclusa dalle dinamiche delle élite finanziarie, già mortificata da un sistema di sfruttamento globale, pressata da ansie di successo economico e competitività spietata, vittima ignara e complice ignorante di bisogni effimeri e indotti, può trovare un più facile riscatto. Un mondo al quale una più povera popolazione può accedere solo in maniera illecita, ad esempio con le versioni pirata dei giochi: un aspetto che evidenzia maggiormente la ben nota sperequazione tra classi sociali e la già minimizzata democrazia del web.
Riusciremo, noi eroi di una nuova avventurosa battaglia civile, cinica e reale, a riappropriarci della vera capacità di partecipazione, di protesta, di distinzione e critica, di discernimento del vero successo sociale? A liberarci dalle maglie dal sistema matrix, riuscendo nella missione di una nuova, effettiva emancipazione?
Nick Dyer-Whiteford, Greig de Peuter, «Games of Empire. Global Capitalism and Videogames»
University of Minnesota Press, 2009
image 1 (cover) «Games of Empire. Global Capitalism and Videogames», Book (cover) 2 World of Warcraft, snap shot from video game, image via