Su Rhizome. org prosegue la grande antologia sull’arte di Internet. Il terzo capitolo, con opere degli anni 2005-2010, inizia con una serie di pratiche che gli artisti mettono in campo non tanto manipolando le tecnologie e i linguaggi informatici, quanto, piuttosto, agendo sui nuovi mezzi di comunicazione tra utenti connessi alla rete e sulla diffusione dei dati su larga scala.
E’ del 2007, ad esempio, il rilascio di Google Street View. Come sappiamo, essa consente di visualizzare innumerevoli luoghi nel mondo, riprendendoli grazie ad una telecamera a 9 obiettivi posizionata su un’auto in movimento (da qui il titolo dell’opera).
Isolare le singole immagini ha permesso a Jon Rafman di costituire un suggestivo archivio di fotografie in seguito stampate ed esposte in galleria. L’artista sottolinea quanto lo scopo di Street View di documentare tutto il visibile non sia assolutamente collegato con alcuna estetica o etica. Semplicemente l’occhio della telecamera cattura ciò che si trova intorno ad essa in maniera neutrale e, secondo l’artista, costringe la nuova generazione di produttori e manipolatori di immagini a misurarsi con un nuovo modo di pensare anche la fotografia. Sintetizzando egli afferma: «la fotografia di Street View, indifferente e senza arte, privata dell’intenzione umana, non ascrive nessun significato particolare ad eventi o persone (Rafman via). L’intervento di Rafman, infine, restituisce autorialità alle immagini estrapolate, nel tentativo di ridare un senso alla realtà circostante secondo quanto dettato dall’immutata missione dell’arte.
Se negli anni Sessanta-Settanta la nascita delle ‘star’ di Warhol celebrò la persona grazie al mitico potere di TV, denaro e immagini nell’era della massificazione, cosa mai poteva accadere quando anche la gente comune, di qualunque età, cultura o provenienza, si fosse dotata di un computer (una voce) e di un collegamento a Internet, la sua eco?
Piattaforme come Myspace all’inizio degli anni Duemila furono tra le prime comunità virtuali nelle quali chiunque poteva ottenere, curare e personalizzare grazie ad un basico utilizzo del linguaggio HTML, un proprio spazio su Internet, nel quale mostrare se stesso, farsi conoscere e relazionarsi con gli altri membri della comunità.
Attratto da questo amalgama di connessioni e palcoscenici Pedro Velez, dal 2003 al 2007, tesse una trama fittizia costituita dalle vite di vari personaggi da lui inventati che, nell’intersezione dei post sui social media creano una narrativa frammentata e non-lineare ricca di pettegolezzo e violenza. L’opera è Hell in Lamb UC, la quale risulta, come sostiene lo stesso Velez in un «complesso ritratto degli apparati che producono desiderio, dal mondo dell’arte a MySpace, e il potere di relazioni che questo processo struttura» (Pedro Velez via). Fingere è facile in rete, gli artisti lo sanno bene e non esitano ad utilizzare piattaforme, dispositivi e network per creare continuamente un mondo immaginario nel quale far muovere i loro personaggi, facendoli interagire e scontrare con un’infinità di opinioni e giudizi, lasciando emergere alcuni gusti e abitudini del popolo di Internet.
In maniera simile si muove Ann Hirsch, con la performance Scandalishious durata diciotto mesi e andata ‘in scena’ sulla piattaforma YouTube. Il personaggio inventato dall’artista era Caroline, la quale postava sul proprio canale dei video in stile camgirl. La ragazza, sedicente «matricola universitaria hipster», interagendo con i suoi follower aveva intessuto una trama di relazioni tale da rappresentare bene la generazione ‘social’ in crescita. Ella agiva «con un autostima al limite della parodia, traendo evidente piacere nel potere e nella libertà ottenuta da questo momento di micro-celebrità». La performance ha raggiunto un milione di visualizzazioni, principalmente da parte di un giovane pubblico maschile, suggerendo alla Hirsch il panorama di una generazione che cerca di comprendere la propria identità in un momento in cui è difficile individuarla in termini di sessualità, genere e apparenza.
Oggi la società digitale attinge a piena mani al potenziale edonistico/promozionale/comunicativo delle multiformi risorse della rete. Tale società espone se stessa tramite i social network (pensiamo ai più diffusi Facebook, Twitter e Instagram) creando piazze di ritrovo e scambio, vetrine commerciali, diari personali nei quali prendono forma il quotidiano privato ma anche le strategie di marketing di molte aziende che, coscientemente, adottano il linguaggio di comunicazione corrente per raggiungere in maniera più immediata la domanda del mercato. L’elezione degli influencer, poi, come il successo di un personaggio improvvisamente noto o il balzo repentino di un cantante da Internet alla TV, vengono sanciti dalla capacità di raggiungere e persuadere il maggior numero di utenti possibile, anche solo grazie all’eco propagatore delle proprie ‘apparizioni’ in rete, e per un periodo talvolta molto limitato.
I Big Data, che si profilano come la sfida più importante per gli specialisti del business contemporaneo, non sono altro che le tracce del nostro passaggio in rete: orme che delineano interessi, desideri, stai d’animo, situazioni, collegabili a persone reali che ogni giorno vivono, a volte inconsapevolmente, connesse tra loro e classificate secondo macro aree da analizzare, conservare e condizionare. Sempre più difficile orientarsi tra vero e presunto, e quindi sfuggire all’appiattimento del senso critico nell’analizzare il paradigma «esposto, dunque vero, dunque condiviso (e condivisibile)».
Net art anthology. Retelling the History of Net Art from the 1980s Through the Present Day, Chapter 3: 2005-2010
Rhizome.org
immagini: (cover 1) Jon Rafman, «Nine Eyes of Google Street View», 2008 (2) Pedro Vélez, «Hell in Lamb UC», 2003-2007 (3) Ann Hirsch, «Scandalishious», 2008.