Nulla terra exilium est, sed altera patria est.[1]Questa massima di Seneca può essere utile a capire in profondità le recenti manovre estetiche che Pedro Terán (Barcelona, Venezuela, 1943) ha proposto nella sua elegante personale organizzata da Federico Luger, alla FL GALLERY di Milano, dove lo spettatore è invitato a riflettere su un tessuto linguistico che si nutre di spazio e di tempo, che volge lo sguardo sulla piattaforma babelica dell’arte, che parla di alcune scottanti tematiche legate all’obbligo, al rimorso, all’emigrazione, confino fisico e metaforico, al buio della civiltà, ai disagi dell’uomo contemporaneo costretto in un mondo fatto di abusi e di soprusi, di masse che hanno perso la voce.
Sono passati circa due anni da quando Terán è in Italia scampato al male di una politica aggressiva e sbandata che oggi è al centro dei riflettori planetari, e da quando è in esilio politico, dall’avamposto in cui vive, a Viterbo, ha tracciato un filo sottile con alcuni lavori degli anni Novanta del secolo scorso – Universo de Manoa (1991) e La Escalera de Manoa (1994), uno straordinario intervento «sobre escalera de cemento con hojilla de oro Ciudad Bolívar», quest’ultimo – per disegnare un progetto la cui capacità è quella di rapire lo sguardo dello spettatore per portarlo, attraverso precise e puntuali segnaletiche, nell’ambito di considerazioni politiche e geografiche, etiche ed estetiche, mitiche, archeologiche, storiche.
Pioniere del concettuale in Venezuela, Terán (non dimentichiamo che l’artista ha un background legato alla performance, alla fotografia, al multimediale, al corpo, alla riflessione sull’essere umano e sulle sue declinazioni nel sociale, nel naturale, nell’ambientale) crea oggi nuovi dispositivi linguistici in cui «respiriamo l’aria della ferita» (Neruda), ma mediante la sospensione delle cose, l’estraniamento e lo spiazzamento, il capovolgimento del punto di vista.
Con un gusto infallibile – difficile non ricordare alcune sue azioni come ART en la calle (1970), Steps (1970), Identity Card (1972), Nubes para Colombia (1981) o l’Estudio de torso (1981) – l’artista mette in campo il frutto di una autoctona concezione estetica venezuelana, cucita però a un gusto metafisico che sottopone a sollecitazioni plurime, a un congressuale legame tra la storia dell’arte e quella delle idee umane. Se da una parte infatti l’omaggio a due nomi italiani dell’arte (Andrea Mantegna e Giorgio Morandi) è reso palese da un sovvertimento poetico che ribalta l’asse prospettico del lamento sul cristo morto e capovolge le nature morte, dall’altra pone al centro dell’attenzione un luogo, Mānoa (non dimentichiamo che il titolo di questa sua nuova personale è L’emigrante di Manoa), geograficamente e storicamente legato al leggendario El indio Dorado dei conquistadores.
La morada del cemento, La casa del emigrante, In mora Morandi, Pianto moderno (tutti del 2018), sono alcuni dei lavori in mostra dove, accanto al cemento – metafora di crollo, di inconsistenza, di sgretolamento che vive il Venezuela – si possono percepire alcuni colori dominanti (terra, cielo e oro) che lasciano intravedere un flusso esoterico e magico che trasforma le materie in memorie, in pensieri superiori.
C’è, in mostra, posta in alto, una lastra di cemento e oro che richiama alla memoria una nuvola e che sembra ricordare il passaggio dalla materia plumbea a quella aurea, l’elevazione da uno stadio inferiore e barbarico del sapere a una illuminazione vertiginosa che porta all’intuizione, alla comprensione del mondo e delle sue storture.
[1] L. A. Seneca, De remediis fortuitorum, 8, 1: «No land is an exile but simply another native land».
Pedro Terán. L’emigrante di Manoa, FL GALLERY di Milano, 25.01 – 15.03.2019
immagini (tutte) Pedro Terán, L’emigrante di Manoa, 2019, exhibition view, FL GALLERY, Milano