Il mirabilia, come sappiamo, è un genere letterario di origine medievale ascrivibile alle moderne guide di viaggio che aiutano l’esploratore ad orientarsi in posti mai visti prima fino ad allora. Silvia Camporesi, traducendone il senso nel medium fotografico plasma un’Italia inconsueta, a tratti weird e stravagante, a tratti affascinante e favolosa. L’enorme progetto in costante itinere, di cui in questa sede immateriale possiamo scorgerne qualche frammento, per quanto «progetto fotografico» e fortemente caratterizzato da una tecnica ineccepibile che trasforma ogni impressione in qualcosa di «bello» e contemplativo, ha nel suo concettualismo intrinseco la sua chiave di lettura più attraente: la pratica del viaggio che diviene parte della pratica artistica. Performance motoria che diviene visiva e che traducendosi nell’occhio della macchina fotografica si trasforma in celebrale.
Le fotografie sono «impressioni» per loro stessa natura, quindi più facilmente traducibili nell’immateriale digitale, ma le opere di Camporesi lo sono ancora di più, perché immateriali in potenza, racchiudendo in esse il viaggio che le ha create. Sono a loro agio tra i bit esistenziali in quanto anch’esse sono prodotte da unità discrete che tutte insieme si trasformano in «archivio», o meglio database, elemento che dà effettivamente senso allo spazio digitale (cos’è Internet se non un immenso archivio).
Concentrandoci sulla mostra in questione, dobbiamo scindere l’esperienza in due importanti focus legatissimi tra loro ma a volte discordanti (pratica tipica ma in questo caso ancora più importante dato che stiamo parlando di una mostra digitale di opere, in questo caso digitali, ma esistenti anche analogicamente su supporti fotografici): le opere in mostra e il display espositivo.
Per quanto riguarda le opere in mostra ci si trova sormontati da immagini curiose, portatrici di significati culturali e antropologici, che non trovano il loro senso semplicemente nel fatto che non avremmo neppure mai pensato che questi paesaggi possano trovarsi nel nostro Bel Paese, ma vanno ben oltre, scandagliando questioni profonde su cosa siamo e cosa siamo stati: architetture industriali insolite, paesaggi spettrali e pieni di pathos e tragedia, scene metafisiche, prospettive affascinanti di posti incantati, abitazioni che sembrano necropoli e necropoli che sembrano condomini, fusioni ardite tra montagna e casa, vite sommerse, nel paesaggio toscano, ed emerse, in quello sardo, architetture fortemente ornamentali che sono vere e proprie opere d’arte eclettiche, al pari delle riproduzioni fotografiche delle sculture del centro Italia, quasi freudiane, collezioni dal fascino inconsueto, quasi astratto, e infine immagini dal sottosuolo, tra le più intriganti, con il Parco di Villa Rossi a Santorso (Veneto) e Villa Guastavillani a Bologna.
Chiaramente queste riproduzioni digitali si sarebbero potute «esporre» in maniera più banale e «archivistica», così come riproduzioni di questo genere si possono trovare sulla maggior parte dei siti Internet, ma la «messa in mostra» vera e propria, seppur in forma esclusivamente digitale, ne potenzia il fascino, costruendo una vera e propria curatela immateriale, così come allo stesso tempo ne mette in crisi il senso, attraverso una gamification che punta sulla superficiale curiosità. Le opere in questione, certo, possono permettersi il rischio, con la loro componente weird sempre accentuata (pensiamo a come il weird domini le logiche digitali ancor più di quelle analogiche, e soprattutto le logiche artistiche) seppur non preponderante (se così non fosse nello spazio digitale queste opere si trasformerebbero in qualcosa di molto simile ad un meme, quintessenza del weird). Questa loro forza espressa tanto bene nell’analogico così come nel digitale, trasforma l’esposizione di bit in azione tangibile, facilitando anche l’avvicinamento di un pubblico che magari non ha mai avuto modo di incontrare strettamente la poetica di Camporesi (un’azione digitale di questo genere, la visita di una mostra d’arte, è fortemente intima, a differenza della sua controparte analogica). Le caratteristiche delle opere stesse, molto più dell’«esposizione» in sé, rendono il progetto vincente, più riuscito della maggior parte delle esposizioni digitali a cui siamo abituati.
Ad ogni modo, però, ad ogni nuova mostra digitale, sorge sempre lo stesso dilemma: un’esposizione digitale ha davvero la necessità di essere una riproduzione di un’esposizione analogica? O forse un’esposizione digitale dovrebbe puntare sulle caratteristiche intrinseche di questo spazio, composto da link che piegano lo spazio-tempo, simulacri di noi stessi e una logica fortemente fondata sull’archiviazione?
Silvia Camporesi, Mirabilia, Photology Online Gallery, fino al 28 febbraio 2023.
immagini (tutte): (all) Silvia Camporesi, Mirabilia, exhibition view, Photology Online Gallery