L’esposizione “A word that troubles” indaga le modalità di interazione tra verbale e visuale nel contesto della produzione artistica contemporanea, focalizzandosi sulla capacità della parola di complicare l’immagine: di abitarla, dunque, esaltandone limiti, possibilità e contraddizioni, dimostrando la sua attitudine ad aprire a nuove forme possibili del visibile. Così facendo, si intende recuperare lo schema dialogico del rapporto tra parola e immagine, relazione che ha interessato la storia del pensiero sin dall’antichità, per poi divampare nelle ricerche degli artisti a partire dalle Avanguardie Storiche.
Gli esiti della ricerca hanno potuto sondare la presenza, tutt’oggi rilevante, di uno schema di “pensiero verbale” nel contesto delle pratiche artistiche italiane e internazionali, dove la verbalità non si esprime con un manieristico ricorso alla forma scritta, ma mediante la capacità di esaltare il sapore del visuale, trovando cioè la sua sostanza nella stessa produzione artistica. La parola, pur mantenendo la sua capacità denotativa, non è dunque protagonista di un autoritario direzionamento del visibile, ma si flette per divenire immagine essa stessa.
L’ opera sfida lo sguardo ad interrogarsi su ciò che vede e legge assieme, in un processo di separazione e contrazione dei due codici ritmicamente alternato. Così parola e visione coesistono in una condizione di ambiguità in cui l’una diviene la deriva dell’altra. Tale stato si riflette nell’eterogeneità delle opere esposte: se talvolta la parola emerge sotto forma di composizioni segniche irriconoscibili, in altri casi questa viene evocata nella sua traduzione in immagine, o ancora si manifesta nelle sue fattezze originarie come componimento poetico. (Gaia Bobò)
A questa premessa teorica della curatrice rispondere le opere.
La scrittura si ritrova nella materia pittorica di Ali di libellule, neve sporca, notte vedova, scirocco (Alessia Armeni), nei gioco tra visibile e invisibile che nel progetto di Edoardo Aruta partono da un idioma anglosassone “elefante nella stanza”, per indicare la presenza di una verità scomoda, nei ribaltamenti della funzione verbale di Emanuele Becheri, partendo dal Trahison des images [Il tradimento delle immagini] (1928-1929) di Magritte, nelle continue dinamiche di traduzione, trasformazione, contaminazione che avvengono nei processi di traduzione, come nel caso di Meno di Francesco Carone dove il testo della Biblioteca di Babele di Jorge Luis Borges partendo dalla prima traduzione italiana del 1955 di Franco Lucentini per Einaudi (Collana I gettoni, direttore editoriale Elio Vittorini) è tradotto in centoquattro diverse lingue grazie a Google Translator, tornando infine a quella italiana.
Il linguaggio è tutto nell’immagine ambigua delle fotografie di Alessandra Draghi che dialoga con il supporto fotografico e torna ad essere più esplicita nelle sperimentazioni verbo-visive di Filipe Lippe e nella scrittura come incantesimo di Agnieszka Mastalerz che ne isola il potere di influenzare il comportamento. La scrittura torna assorbita nella dimensione di segno nel lavoro pittorico di Benyamin Zolfaghari che nell’influenza della cultura persiana e della sua scrittura ritrova la contaminazione tra verbo e visione.
A World that Troubles, curated by Gaia Bobò, Temple University, Rome Campus, 21.09 – 14.10.2020
immagini: (cover 1) Filipe Lippe, «Amor Fati», stampa inkjet su carta, 2016-2020 (2) Francesco Carone, «Meno», 2018, libro d’artista, ed. limitata (3) Edoardo Aruta, «Elephant in the Room», 2019, installazione video (4) Emanuele Becheri, «Ceci n’est pas une idée», 2013, tecnica mista su vetro, cartone pressato, inchiostro tipografico, 105x50cm (5) Alessia Armeni, «Profil perdu», 2020, olio su tela, 40x40cm