Oltre cento lavori e due anni di preparativi per la mostra «Electronic Superhighway (2016-1966)» alla Whitechapel Gallery di Londra che finalmente affronta il tema della relazione tra l’arte e la rete osservando il fenomeno anche attraverso la sua evoluzione storica, prendendo in considerazione cinquant’anni di coesistenza, tra ricerca, analisi e sperimentazioni.
«Fin dall’inizio di questo progetto ci siamo resi conto che al di là del presentare artisti giovani, attivi in questo momento, i loro lavori e le loro pratiche artistiche, era importante mostrare l’origine di tutto questo, il punto di partenza», dice Emily Butler, curatrice della Whitechapel Gallery che si è occupata della mostra insieme ad Omar Kholeif, curatore presso il Museum of Contemporary Art di Chicago e ideatore di «Electronic Superhighway (2016-1966)».
Il percorso espositivo comincia nella grande sala al piano terra che mette insieme in maniera volutamente caotica artisti diversi per generazione e tipologia di ricerca come Cory Arcangel, Jon Rafman, Petra Cortright, Oliver Laric, Constant Dullaart, Eva e Franco Mattes, Ryan Trecartin, Camille Henrot (solo per citarne alcuni). Gli artisti inclusi in questa sezione sembrano uniti da un filo rosso rappresentato da una questione mai espressa in maniera diretta eppure fortemente intuibile in ognuno dei lavori proposti: come è cambiata – e sta cambiando – l’arte dopo la diffusione di internet? Naturalmente la domanda allude anche all’utilizzo estensivo e planetario di tutte quelle tecnologie che servono ad accedere alla rete (computer, tablet, smartphone) e in generale di quei dispositivi che hanno rivoluzionato il nostro modo di osservare e di comunicare con il mondo (le chat, i social network, etc.).
Le questioni relative alla rivoluzione digitale e all’avvento di internet sono già da anni al centro dell’attenzione di sociologi, economisti, linguisti, psicologi cognitivi eppure tardano ancora ad essere riconosciute come ‘urgenti’ da molti critici e storici dell’arte, che si ostinano a considerare la rete come un qualsiasi altro medium di cui gli artisti si sono serviti in passato.
«I lavori in questa sezione esplorano diversi modi in cui digitale e analogico si interfacciano e si influenzano vicendevolmente», dice Omar Kholeif. Grande attenzione viene posta sul rapporto con il medium più tradizionale in assoluto, la pittura. Troviamo, ad esempio, Joshua Nathanson che ha l’abitudine di dipingere all’aria aperta usando dispositivi digitali che gli permettono di produrre lavori intrisi di quei caratteri estetico-formali che potremmo ricondurre alla dibattuta definizione di new aesthetic, ma una volta tornato in studio riporta su tela il lavoro utilizzando la pittura acrilica, dando vita ad opere naif, dal carattere infantile, non prive comunque di un certo appeal. Oppure Celia Hempton che ritrae, in piccole tele con uno stile già definito neo-espressionista, soggetti incontrati solo virtualmente sulle chat random, creando lavori che esplorano il paradosso dell’intimità in rete, tra anonimato, esibizionismo, pornografia e erotismo.
Il percorso procede a ritroso nel tempo al secondo piano dove si incontrano due installazioni di Nam June Paik. Lo stesso titolo scelto per la mostra, Electronic Superhighway, è un’espressione usata dall’artista di origini coreane nel 1974, a proposito della televisione e del suo potenziale come strumento per connettere le persone intorno al globo. A tal proposito, la mostra presenta la prima installazione satellitare Good Morning, Mr. Orwell emissione trasmessa in mondo visione dal Centre Pompidou di Parigi nel 1984 a cui presero parte tra gli altri John Cage, Peter Gabriel, Merce Cunningham, Joseph Beuys, Allen Ginsberg, Philip Glass. Si continua con alcuni lavori dei pionieri dell’arte digitale come CTG (Computer Technique Group) di Tokyo, Gary Hill, Hiroshi Kawano, E.A.T. (Experiments in Art and Technology) formato da John Cage, Robert Rauschenberg, Yvonne Rainer a New York intorno al 1966, con la collaborazione della compagnia informatica Bell Laboratory. Infine si termina con Cybernetic Serendipity la prima mostra internazionale sul tema di arte e tecnologia tenutasi in Inghilterra nel 1968 presso l’Institute of Contemporary Art di Londra.
Malgrado il percorso risulti in alcuni punti poco chiaro e complicato da scelte discutibili, Electronic Superhighway (2016-1966) rappresenta senza dubbio una pietra miliare nello studio della complessa relazione tra arte, web e nuove tecnologie.
Peccato soltanto per i numerosi esclusi e soprattutto per l’assenza che a mio avviso pesa più di tutte, ovvero la totale mancanza di riferimenti a Les Immatériaux lo storico evento curato dal sociologo Jean Fançois Lyotard al Centre Pompidou di Parigi nel 1984, che resta ad oggi l’unica mostra che abbia davvero presentato il fenomeno attribuendogli il giusto valore dal punto di vista storico-scientifico, tenendo conto delle sue implicazioni in ambito critico, estetico-filosofico e sociologico.
[nggallery id=89]
immagini (cover 1) Oliver Laric, Versions (Missile Variations), 2010 (2) Whitechapel Gallery. Electronic Superhighway 2016 – 1966 Installation view Gallery 1 (6) (3) Nam June Paik, Internet Dream, 1994 (4) Rachel Maclean, Germs, 2013 (5) Whitechapel Gallery. Electronic Superhighway 2016 – 1966 Installation view Gallery (6) Aristarkh Chernyshev, Loading, 2007