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Home News Focus

Intervista | Catherine Nichols

Eva Kekou in dialogo con la curatrice di Manifesta 14, parla del concept di questa edizione, del processo nel suo farsi, dell'impatto anche politico della biennale nella città che la ospita, Phristina

Eva Kekou by Eva Kekou
23/09/2022
in Focus, Interview
Intervista | Catherine Nichols
Eva Kekou intervista Caherine Nichols, studiosa di arte e letteratura, scrittrice e curatrice esperta in pratiche espositive sperimentali, attualmente mediatrice creativa di Manifesta 14. Tra gli argomenti affrontati, il percorso che ha portato all’edizione attuale di questa biennale nomade, il suo impatto politico su Phristina, la città che la ospita, e molto altro.

Eva Kekou: Può descrivere come ha immaginato il progetto Manifesta al conferimento dell’incarico curatoriale?

Catherine Nichols: L’aspetto affascinante dello sviluppo del programma artistico di Manifesta, che, come sa, è una biennale nomade, sta in una serie di parametri e obiettivi dal carattere mutevole e molto diversi rispetto alle biennali stabili come quelle di Venezia, San Paolo, Gwangju, Singapore o Sydney. Questo modello di biennale, in costante evoluzione sotto la guida della direttrice Hedwig Fijen, si propone sempre di esplorare e rispondere ai bisogni e ai desideri di una specifica città e dei suoi cittadini (in questo caso Pristina) anziché proporre ogni due anni un nuovo tema e un nuovo approccio curatoriale nella stessa città.

Così, quando sono entrata a far parte del team di Manifesta nell’estate del 2021, il mio compito è stato quello di gestire da un lato gli obiettivi articolati dalla città nella sua candidatura a ospitare la biennale e dall’altro i risultati del processo di ricerca precedente alla biennale. Questo processo, che ha incluso indagini urbanistiche condotte da Carlo Ratti Associati e dal MIT Senseable Lab oltre a numerose consultazioni e assemblee di cittadini, ha svolto un ruolo cruciale nella mappatura delle infrastrutture della città e nell’identificazione dei siti di intervento idonei.

Ho iniziato visitando questi luoghi, incontrando tante persone diverse: artisti, architetti, urbanisti, sociologi, studenti, bambini in età scolare, scrittori, storici, operai, pensatori o attivisti. Poi ho riflettuto su quali tipi di pratiche artistiche, architettoniche, sociali e scientifiche potessero svolgere un ruolo trasformativo nella città.

L’idea per il tema generale (It matters what worlds world worlds: how to tell stories otherwise – Il mondo dominante: come narrare storie diverse) mi è venuta quando mi sono resa conto di quanto la gente in Kosovo stesse già usando la narrazione collettiva per affrontare il passato e mettere in atto la trasformazione sociale. La scelta di questo tema è stata un modo per riprendere e sviluppare ciò che già esisteva.

Il titolo cita la teorica americana Donna Haraway, il cui pensiero sulla «narrazione per la sopravvivenza terrena» ha svolto un ruolo fondamentale nel processo di concettualizzazione. Così come l’esplorazione di Hannah Arendt della narrazione come mezzo per entrare nella sfera pubblica e, in quanto tale, per indagare la condizione della politica.

Quali sfide ha dovuto superare e come lo ha fatto nel corso degli anni e durante lo sviluppo del processo curatoriale?

Credo che la sfida più grande che ho affrontato sia stata la quantità piuttosto limitata di tempo che ho avuto a disposizione per immergermi nella storia e nel paesaggio culturale, non solo di una città e di un Paese, ma anche di un’intera regione. Poiché Manifesta 14 Prishtina si era prefissata l’obiettivo di rafforzare i legami e la cooperazione in tutta la regione e il progetto cerca sempre di essere il più possibile site-specific e radicato nel luogo che lo ospita, ho voluto conoscere il maggior numero possibile di persone e le loro attività.

Dato che le attività culturali devono fare i conti con una mancanza cronica di fondi e la visibilità degli artisti è generalmente scarsa, non è stato facile come altrove individuare le figure emergenti e vedere le loro opere. Ci sono pochissime mostre e non molti artisti dispongono di studi, pubblicazioni o siti web completi.

La cosa positiva è che esiste una rete forte, almeno all’interno delle singole città se non tra di esse, e in generale tutti sono molto calorosi, accoglienti e piuttosto solidali gli uni con gli altri, quindi non ci è voluto molto per orientarmi. La partecipazione di oltre 150 artisti e collettivi a un bando aperto per progetti provenienti dal Kosovo e dalla diaspora kosovara ha contribuito a rafforzare la mia visione d’insieme della situazione.

Anche la complessità della storia e della scena politica del Kosovo e dell’ex Jugoslavia richiedono molto tempo per essere comprese. Una cosa è acquisire una conoscenza pratica dei problemi che le varie società post-belliche della regione stanno affrontando e un’altra è lavorare effettivamente con questa conoscenza in modo significativo. Anche in questo caso ho trovato persone pronte a suggerire la letteratura e gli esperti da consultare, gli aspetti da tenere d’occhio e da cui diffidare. Le risorse più utili sono state l’iniziativa Oral History Kosovo e la piattaforma online di media indipendenti Kosovo 2.0.

 In che modo il Kosovo è stato un «target» curatoriale adeguato e perché pensa che i Balcani possano essere per noi un tema di grande interesse? 

Come ho già detto, Pristina ha voluto ospitare Manifesta per molte ragioni. La città era convinta che la biennale potesse sostenere i suoi cittadini nella loro volontà di recuperare spazio pubblico, di espandere e rafforzare le forme di democrazia partecipativa, di estendere l’infrastruttura culturale oltre i confini del centro cittadino, di creare e mantenere spazi per il benessere, di migliorare la diversità e l’inclusività nei settori culturali, di ridurre l’inquinamento e di rendere la città più verde.

Allo stesso tempo, la gente spera che la biennale contribuisca ad ampliare il quadro narrativo all’interno di cui il Kosovo viene visto a livello internazionale. Se da un lato la popolazione ritiene sensato riconoscere il ruolo che la guerra e la giustizia di transizione giocano nel delineare questo quadro, dall’altro molti desiderano superare i limiti che si accompagnano alle narrazioni di violenza, e sono desiderosi di aumentare la visibilità di artisti, scrittori, registi, pensatori e creatori in relazione alle questioni che affrontano e mostrare alla gente la qualità del lavoro che viene dal Paese. Lavorare con i membri del team locale e internazionale per raggiungere questi obiettivi è probabilmente quanto di più stimolante e significativo possa esserci nel lavoro di curatrice.

Ora che la biennale è partita da diverse settimane, sta diventando evidente che i visitatori desiderano la stessa cosa: una comprensione più articolata delle storie e delle strategie in atto in Kosovo e nella regione spesso chiamata «dei Balcani». Da quanto ho sentito, i visitatori sono molto interessati a esaminare le dinamiche delle società post-socialiste e post-belliche, intrecciate ai meccanismi del turbocapitalismo. Ne fanno esperienza tanto nelle venticinque strutture che compongono il percorso quanto nei progetti che vedono, negli eventi del Centre for Narrative Practice (Centro per la pratica narrativa), un istituto fondato nell’ambito di Manifesta 14 che continuerà la propria attività dopo la biennale, o nel programma della piattaforma radiofonica online Radio Otherwise, recentemente lanciata dal Centro. Più di ogni altra cosa, credo che le persone in tutto il mondo siano desiderose di studiare strategie di guarigione, riparazione, resistenza e resilienza. Come si può vedere alla biennale, ci sono molte opere e progetti provenienti dall’Europa sudorientale che affrontano tali questioni in maniera interessante, dall’insegnamento della scrittura fantascientifica alla progettazione di opere di architettura curativa.

 In che modo sono stati messi in gioco gli spazi pubblici e gli edifici inutilizzati di Pristina, e come cambiano quegli spazi quando vengono utilizzati e percepiti?

I tre principali interventi urbanistici sono stati la trasformazione della biblioteca Hivzi Sulejmani, ormai in disuso, nel vivace Centro per la pratica narrativa, la riqualificazione dell’ex Fabbrica di mattoni per testarne l’adeguatezza come polo culturale e la creazione di un Corridoio verde, un percorso pedonale lungo una linea ferroviaria dismessa che collega la Fabbrica di mattoni al Palazzo della gioventù e dello sport, nel cuore della città. Anche molte delle altre ventidue strutture testimoniano modalità variegate di confronto con edifici disfunzionali, come l’installazione di Chiharu Shiota al Grande Hammam, complesso di bagni tradizionali non più utilizzato dagli anni Sessanta, la proiezione del film di Christian Nyampeta al Kino Rinia, un bellissimo cinema storico salvato per un soffio dalla trasformazione in complesso termale, o l’installazione di Cevdet Erek al Rilindja, una casa editrice ormai vuota dove è stato stampato il primo giornale in lingua albanese. L’effetto più significativo di questi numerosi interventi è stato quello di far sì che i kosovari, spesso per la prima volta, visitassero siti di importanza storica di cui avevano perso memoria e si ricollegassero ai medesimi. Il primo passo per recuperare lo spazio pubblico è, ovviamente, notarlo ed entrarci. E una volta entrati, portare alla luce le storie che si scoprono o si incontrano muovendosi all’interno dello stesso, le cose che fanno riflettere, modificano o cementano il rapporto che si ha con il luogo.

Vorrei che commentasse la narrazione che si è sviluppata attraverso la pratica curatoriale in diversi edifici e spazi della città di Pristina.

Se dovessi riassumere in una sola parola, con un solo titolo, le molteplici narrazioni che si dipanano attraverso Manifesta 14 Prishtina, sceglierei «diversità»: la biennale si propone di utilizzare le pratiche narrative, individuali o collettive, per far emergere nuove storie, più umane, più sostenibili, per evocare un’alternativa più percorribile.

Nelle opere selezionate, la videoarte ha un ruolo di primo piano? Perché pensa che la videoarte e i film siano importanti nella scena artistica e culturale dei Balcani, e in che modo i video ci aiutano a comprendere a fondo la politica e a metterla in relazione con l’arte?

La videoarte è piuttosto rilevante nella scena artistica dei Balcani così come in tutto il mondo. È un mezzo che, sia che si tratti di un documentario, di un’opera di finzione o di entrambi, accoglie una pluralità di voci e permette di veicolare la stratificazione delle storie. Uno dei motivi per cui molte persone nei Balcani lavorano con questo mezzo è che non richiede uno studio. Poiché gli studi sono costosi e difficili da trovare, molti artisti si dedicano ai video perché possono farlo dal tavolo della cucina o a letto.

Quanto è stata politica l’edizione di quest’anno di Manifesta, e in che modo è stato raggiunto l’obiettivo di inviare messaggi politici?

Penso che Manifesta sia intrinsecamente politica nella misura in cui accresce la consapevolezza internazionale della situazione nelle città che la ospitano, e nella misura in cui cerca di collaborare con i cittadini di una data città per trasformare le infrastrutture sociali, creare nuovi immaginari, rafforzare il pensiero politico e soprattutto incoraggiare la partecipazione ai processi politici e alla società civile. Ogni città ha un proprio panorama politico. Palermo è diversa da Marsiglia e Marsiglia è diversa da Pristina, la capitale del Kosovo, un paese che lotta per il riconoscimento della propria sovranità e per l’abolizione delle restrizioni sui visti. Essendo la prima edizione di Manifesta a cui ho lavorato, non so dirle se quest’anno sia stata più politica degli altri anni.

Come hanno reagito finora pubblico, visitatori, ospiti e professionisti?

In modo positivo. Siamo molto soddisfatti del numero di visitatori. La gente sembra apprezzare molto la città, le sue architetture intriganti e i suoi monumenti. Anche gli abitanti del luogo mi hanno raccontato di essersi divertiti a usare una mappa per la prima volta nella propria città, scoprendo e riscoprendo luoghi davanti cui erano passati innumerevoli volte. Anche il fascino di entrare in contatto con un ampio spettro di pratiche artistiche del Kosovo e della regione intrecciate tra loro è stato fortemente sottolineato nelle recensioni. L’ingresso gratuito ha permesso la partecipazione di visitatori di una fascia demografica molto ampia. Il primo giorno abbiamo incontrato un bambino di dieci anni che era venuto al Grand Hotel da solo per visitare la prima biennale internazionale della città.

 In che modo lavorare in un paese dei Balcani sudorientali, con tutta la complessità culturale del suo contesto, ha rappresentato una sfida per lei come curatrice, in particolare donna e australiana?

Come ho già detto, la complessità storica e politica di questa parte del mondo è una sfida per qualsiasi straniero. In effetti, lo è anche per la gente del posto. Non so se mi sentirò mai su un terreno stabile, navigando sempre tra storie di conflitto e traumi passati. Eppure faccio parte di un gruppo molto ampio e ben informato e sono in contatto con innumerevoli altre persone provenienti da tutti i settori della società. Dato che spesso ho portato con me il mio cane mentre viaggiavo attraverso la regione, tante persone diverse mi hanno fermato per parlare. In qualche modo, avere un cane ti rende più avvicinabile, ti fa entrare in contatto con gente che altrimenti non incontreresti. Quindi ho ascoltato e letto con attenzione e ho fatto molte domande, facendo del mio meglio per assicurarmi di contribuire con la necessaria sensibilità al programma generale.

Essere australiana è stato utile per certi versi. Da un lato, conosco molte persone che sono venute a vivere a Sydney, dove sono cresciuta, in varie ondate migratorie, alcune negli anni Sessanta, altre negli anni Novanta. Vivendo a Berlino, ho conosciuto anche molta gente dell’Europa sudorientale. Ecco perché lavorare nella regione non è stato uno shock culturale. D’altro canto, è stato un bene essere straniera, entrare in scena senza pregiudizi o legami.

Mi rendo conto che il Kosovo non è un posto facile per le donne che lavorano. L’opera Sister Flats di Alicja Rogalska, ambientata in un appartamento privato, rende evidenti le sfide da affrontare. Detto questo, in Kosovo non ho sperimentato discriminazione in prima persona. La gente è stata straordinariamente calorosa e gentile con me.

MANIFESTA 14, curated by Catherine Nichols, Phristina, 22.07 – 30.10.2022

immagini: (cover 1) Under the Sun – Explain What Happened, 2022, © Flaka Haliti. Photo © Manifesta 14 Prishtina, Ivan Erofeev (2) Green Corridor, 2022, © CRA-Carlo Ratti Associati. Photo © Manifesta 14 Prishtin, Ivan Erofeev (3) Sometimes It Was Beautiful, 2018, © Christian Nyampeta. Photo © Manifesta 14 Prishtina, Ivan Erofeev (4) Amator Archives, 2022, © Werker Collective. Photo © Manifesta 14 Prishtina, Ivan Erofeev (5) Working on Common Ground, 2022, © raumlaborberlin Photo © Manifesta 14 Prishtina Ivan Erofeev (6) Brutal Times, 2022 , © Cevdet Erek Photo © Manifesta 14 Prishtina Ivan Erofeev (7) PËRTEJ – Archiving Transition, 2022, © Foundation 17 Photo. © Manifesta 14 Prishtina, Majlinda Hoxha (8) LYNX , 2022, © Astrit Ismaili. Photo © Manifesta 14 Prishtina, Esad Duraku (9) LOVE is LOVE is LOVE, 2022, © Sekhmet Institute with Ermira Murati. Photo © Besfort Syla

 

Tags: arsarshakebiennalebiennialCarlo RattiCatherine NicholscuratorcuratorialEva KekouexhibitioninterviewintervistaManifesta 14Phristinapoliticswriter
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