Torna, dopo otto anni, la Quadriennale di Roma, ospitata all’interno di Palazzo delle Esposizioni con il titolo Altri Tempi, altri miti. Concepita per costruire un panorama sui linguaggi creativi del periodo che segue il 2000, è articolata in dieci sezioni espositive. I curatori di ciascuna sezione sono stati selezionati da una giuria internazionale a seguito di una call bandita agli inizi di settembre 2015. Domenico Quaranta, curatore di una delle dieci sezioni dal titolo Cyphoria, ci racconta del suo progetto– coerentemente con il suo percorso di ricerca – attento all’intreccio dei linguaggi creativi con la tecnologia e l’universo digitale.
Partiamo dal titolo, Cyphoria. Nel testo che accompagna la mostra spieghi di averlo ripreso da The Age of Earthquakes. A Guide to the Extreme Present (Shumon Basar, Douglas Coupland e Hans Ulrich Obrist) dove cyphoria è uno tra una serie di lemmi utilizzati per descrivere il presente più attuale. [In questo contesto] al termine Cyphoria corrisponde ‘la convinzione che Internet sia il mondo reale’. Gli artisti che hai invitato ci hanno insegnato nel tempo a guardare il mezzo in maniera obiettiva, a decostruirne i meccanismi, ad acquistare una certa consapevolezza di come il mondo capitalista ci stia piano piano deglutendo all’interno della propria pancia. Ci puoi raccontare come i lavori declinano il lemma cyphoria? C’è spazio per un’utopia del futuro?
I concepts delle mostre a volte forzano i lavori all’interno di una struttura discorsiva precisa, in cui a ognuno viene assegnato un ruolo definito. Rispetto questo modo di fare le mostre, e l’ho usato a volte. Nel caso di Cyphoria, tuttavia, mi sono limitato a scegliere lavori e artisti capaci di offrire uno sguardo fresco e aggiornato sul presente: uno sguardo che si concilia con il mio e che è ovviamente soggettivo e parziale, ma che va a occupare quello spazio che mi sono sentito assegnato nel momento in cui sono stato invitato al bando per progetti curatoriali della Quadriennale. La mia presenza in quella lista non era scontata: ho cercato di interpretarne il senso e ho risposto con questa mostra. Più che offrire una chiave interpretativa per le opere, il titolo delinea un’atmosfera, un mood, lo «stato delle cose» in cui, per me, questi lavori acquistano un senso: quello di un inizio di millennio segnato dall’impatto di internet e delle tecnologie digitali, e del nostro lento, contraddittorio ma inesorabile, adattamento ad esse.
Intendiamoci: dire che internet e il digitale hanno cambiato il mondo è una ovvietà assoluta che le copertine di Time Magazine ribadiscono da circa vent’anni; anche raccontare con una mostra lo stato di disagio digitale in cui viviamo potrebbe, oggi, suonare un po’ fuori tempo massimo per uno spettatore aggiornato, dopo che la Biennale di Berlino ha coronato e chiuso il ciclo dell’hype del post internet. L’originalità, o il senso, di Cyphoria è proporre questo discorso in Italia, parlando dell’Italia, attraverso il lavoro di artisti italiani.
Per rispondere all’ultima domanda: per le utopie c’è sempre spazio, e non è sempre una bella cosa. Ma se mi chiedi se possiamo sperare nel futuro, la risposta è si. Fortunatamente siamo usciti dalla fase dell’eccitazione e dell’innamoramento, nel nostro modo di vivere l’evoluzione digitale: questo ci rende più consapevoli, più realisti, più lucidi, più capaci di costruire il nostro futuro sfruttando le potenzialità della tecnologia e dei mezzi di comunicazione, lottando per preservarle e progettandone l’evoluzione.
Quali sono i criteri di selezione degli artisti che hai invitato a raccontare cyphoria?
La Quadriennale chiedeva lavori recenti di artisti italiani nati e cresciuti professionalmente tra il 2000 e il 2016, italiani o residenti in Italia. Ho scelto artisti e lavori che mi aiutassero ad abbozzare il dipinto di cui ho parlato qui sopra. Alcune linee guida personali sono state: la volontà di rappresentare adeguatamente almeno tre momenti generazionali, nella consapevolezza che l’approccio ai temi e ai linguaggi della mostra cambia molto a seconda che si sia iniziato a lavorare a fine anni Novanta, dopo l’avvento degli smartphone e dei social network, o all’inizio del nostro decennio; la volontà di affiancare artisti attivi internazionalmente, ma poco presenti in Italia, a giovani alla loro prima esperienza istituzionale importante. Per me la Quadriennale è, o dovrebbe essere, una mostra di ricerca, che deve creare connessioni e non appoggiarsi a connessioni già esistenti: e sono abbastanza orgoglioso di aver proposto artisti non selezionati da altri curatori, molti dei quali non rappresentati da gallerie e poco presenti nei circuiti istituzionali italiani.
Gli undici progetti di mostra della Quadriennale sono stati selezionati da una giuria internazionale a seguito di una open call. Il progetto che tu hai proposto posava un’attenzione sul panorama digitale piuttosto specifica, coerentemente con i tuoi interessi di ricerca. Fino a poco tempo fa, questo ambito di sperimentazioni è stato considerato come marginale, anche quando investito da un certo interesse istituzionale, in particolare in Italia. Credi che la composizione internazionale della giuria possa aver favorito una scelta di apertura nell’includere questa sfaccettatura nell’analisi del panorama dell’arte presente?
Non saprei dire. Credo che la giuria abbia valutato e apprezzato non tanto il mio profilo, che già conosceva, quanto il mio progetto, per il contributo che poteva dare al progetto Quadriennale nel suo complesso. Guardando a Altri tempi, altri miti, a prescindere da qualsiasi giudizio qualitativo, si ha la percezione di un menù ben calibrato, e concepito per restituire un ritratto non dico completo, ma quanto meno poliedrico dell’Italia e dell’arte italiana, tra tradizioni ancestrali e spinte innovative, intimismo e politica, isolamento e globalizzazione. L’apporto curatoriale del comitato di selezione non è meno presente di quello dei dieci curatori selezionati.
Il Laocoön #D20-Q1 (2016) di Quayola ha ricevuto una menzione speciale. Le sue sculture racchiudono diversi gradi di analisi della materia, della forma, della percezione analizzata in un confronto con i capolavori del passato e nella mediazione tecnologica. La sua indagine si muove su più piani senza mai tralasciare l’aspetto formale. Credi che questo aspetto abbia favorito l’attenzione verso il suo lavoro?
Sicuramente questo aspetto, assieme alla continua ricerca di un dialogo con la tradizione – dalla classicità al barocco all’impressionismo – e alla materialità monumentale dei suoi lavori, sono fattori importanti nella ricezione del lavoro di Quayola in generale, e di questa serie di sculture in particolare. Ci tenevo molto ad avere questo lavoro in mostra, per la sua capacità di unire in un’unica immagine di impatto due tempi diversi (il passato e il “futuro presente”) e due modalità di concepire l’immagine (la lotta con la materia della scultura classica e la malleabilità liquida dei dati digitali). In Ways of Seeing, John Berger sottolinea come non è la nostra percezione dell’immagine a cambiare con l’avvento della riproducibilità tecnica: è l’immagine stessa che cambia. La Gioconda non è più la Gioconda di Leonardo. Laocoön #D20-Q1 ci racconta come, cambiando il nostro sguardo sulle immagini della tradizione, le tecnologie digitali stiano cambiando la tradizione.
L’inclusione del lavoro di Quayola all’interno della mostra è particolarmente significativo anche di un momento, quello che arbitrariamente indichiamo come post-digitale, caratterizzato da un ritorno alla materia, ad un nuovo analogico, seppure mediato dalla tecnologia. Ci puoi raccontare meglio questo aspetto e cosa significa a questo proposito il suo lavoro all’interno della mostra?
Cyphoria è una mostra che parla di un presente intriso di mediazione, ma le uniche tecnologie che abbiamo usato in mostra sono schermi, tecnologie di display. Tutti i lavori sono riconducibili a categorie materiali abbastanza convenzionali e accettate: stampe, sculture, installazioni, dipinti, video, performance. Quei pochi che si sono sforzati di commentarla l’hanno sbrigativamente ricondotta alla categoria della mostra ‘post internet‘. Io credo che post internet e post digital siano termini che hanno segnato un momento importante nella vicenda del rapporto tra arte e tecnologie digitali: gli artisti hanno preso coscienza dei modi e delle forme con cui portare il loro discorso e la loro riflessione nello spazio espositivo, il pubblico ha preso atto che quella disconnessione tra il tempo dell’arte e quello del dispositivo che usa per fotografarla, manipolarla, taggarla e postarla era solo un’illusione indotta da un mondo, quello dell’arte, strutturalmente conservatore e arretrato. Post internet e post digital sono state, in altre parole, una presa di coscienza generazionale che, ora come ora, sta perdendo la sua attualità. Ieri sono stato a Palazzo Strozzi a vedere la personale di Ai Weiwei. Tre quarti di quella mostra sono post digitali in termini di modalità produttive e post internet nei temi e nell’iconografia. Utilizzare una terminologia che attribuisca una qualche forma di specificità a lavori come quello di Quayola non mi sembra avere più molto senso.
Ovviamente questo discorso resta valido, in Italia, soprattutto in teoria. Ti faccio una domanda impertinente: avresti visto questi lavori se non fosse stato coinvolto un curatore notoriamente interessato a post internet, media art o come vogliamo chiamarla? Cosa sarebbe stata la Quadriennale 2016 senza Cyphoria? Quanto è rappresentativa una rassegna dell’arte italiana degli ultimi quindici anni che non includa Eva e Franco Mattes, Alterazioni Video, Quayola ecc.? Malgrado tutto, una separazione ancora esiste, ed esisterà fino a che non ci sarà più bisogno di figure «specializzate» per introdurre certe tematiche in un contesto espositivo istituzionale.
Il termine post internet che aveva animato numerose discussioni intorno alla metà del 2000 sulle mailing list di gruppi attivi all’interno della media art, descrive oggi una condizione sempre più avvolgente ed espansa dell’arte e della vita, sempre più traslata con linguaggi ibridi, multimediali, interdisciplinari. In quest’ottica possiamo ancora utilizzare il termine ‘media art’? Possiamo ancora considerarla come a sé stante rispetto ad altri linguaggi?
È una questione complessa, che richiederebbe più di poche righe. Il post internet è stato il modo in cui un certo filone di arte «internet aware» si è manifestata nel mondo dell’arte contemporanea. Al di là di questo, esiste ancora un ricchissimo filone di media art che, per vari motivi, non trova sbocco nel mondo dell’arte, ma in una infrastruttura dedicata di istituzioni, festival, centri di produzione, luoghi di dibattito. In certi paesi, esistono persino settori di finanziamento pubblico separato per le arte visive e la media art. Questa separazione esiste, è reale, e anche se non ci piace, o non ne avvertiamo la necessità, fino a che ci sarà il termine media art manterrà una propria necessità. Se e quando sarà superata, potrebbe eventualmente sopravvivere come categoria rigorosamente tecnica (diversamente da post internet, che non descrive un genere o un linguaggio, ma un trend).
La Quadriennale si propone di delineare il panorama artistico italiano. Con la tua mostra hai invitato quattordici artisti italiani. Più della metà di loro sono cresciuti professionalmente all’estero dove tutt’ora vivono. Credi che l’Italia sia in debito verso il loro lavoro?
No, non direi così. Non mi è mai piaciuto il concetto di fuga dei cervelli, e la mobilità internazionale è un fatto positivo e con una lunga tradizione per l’arte, non sempre imputabile alle mancanze del paese d’origine. Certo è che l’Italia ha dimostrato, in questi anni, scarsa sensibilità per un certo tipo di proposte, e manca di infrastrutture capaci di sostenere le pratiche a cui le grandi istituzioni e il mercato si rivelano meno sensibili.
E’ possibile oggi, nell’era globale, riuscire a mantenere un’identità nazionale?
È possibile, ma è soprattutto necessario. La globalizzazione non deve annullare la differenza, ma deve nutrirsi di essa. Il che non significa dire che esista un territorio chiaramente circoscrivibile come arte italiana contemporanea, ma esiste, e deve esistere, una modalità italiana di declinare la globalizzazione.
16a Quadriennale di Roma. Altri Tempi, altri miti, Palazzo delle Esposizioni, Roma, fino all’8 gennaio 2017
immagini
(cover 1) Alterazioni Video, « Take Care of the One You Love», 2016. Installazione, materiali vari. Dimensioni ambientali. Courtesy degli artisti e dispari&dispari project, Berlino / Reggio Emilia (2) Marco Strappato, da sinistra a destra: «Laocoön», «Apollo and Daphne», «Untitled (Sunset in Utopia)», installazione al Royal College of Art, Londra, 2015, courtesy l’Artista e The Gallery Apart, Roma (3) Quayola, «Laocoön ΔD20-Q1», 2016, marmo bianco polverizzato, 234×131×124 cm. Courtesy dell’artista e Bitforms gallery, New York (4) Enrico Boccioletti, «Angelo Azzurro (Guy Debord)», 2014, documentazione di scenario temporaneo. Immagine RAW da Canon CR2 esportata in JPEG. Courtesy dell’artista