Abbiamo intervistato Elena Giulia Abbiatici, curatrice di A New Social Contract, uno dei progetti che hanno ruotato attorno a «Something Else», titolo della Biennale Off del Cairo per visione del curatore Simon Njami. Gli artisti hanno contribuito con i loro lavori a suscitare riflessione su questioni legate ad un eventuale ripensamento del concetto di società nell’epoca dei social media nell’eventualità di poter riconsiderare e riattualizzare il concetto di umanità, partendo dal Cotratto Sociale di Jean Jacques Rousseau.
E.G. Rossi: Quando e come è nata la scintilla che ti ha stimolato a fare ruotare il progetto per la Biennale attorno all’idea di un nuovo contratto sociale?
E.G. Abbiatici: Nelle parole di Simon Njami, primo curatore di «Something Else» e colui che ha dato alla Biennale Off questo nome, emergevano due concetti forti: l’idea di «togetherness» e di una condivisione del sensibile, ovvero di un proprio mondo da esperire e far rivivere. C’era l’idea quindi di creare una nuova zona da vivere in uno spirito di collettività e compartecipazione. E in questa nuova zona, dove l’apertura è massima ma è richiesto altrettanto input, ho visto subito quella di un ipotetico nuovo nucleo sociale. Quindi di un insieme di individui che decidono di unirsi e di costruire qualcosa di diverso in termini di attitudine e non di perfomatività. Il fatto di vivere nell’epoca del social networks, in cui tutto diventa «social» e condiviso, peccando di superficialità, mi ha fatto interrogare sul significato di essere sociale e di fare società in questa «augumented era». Non può più valere la logica della volontà generale rousseauniana, che pur già a fine settecento trovava le sue difficoltà ad affermarsi, ma serve cominciare o forse ricominicare. Iniziare a eliminare tutte le strutture che permettono di mantenere attivi sistemi statali e governativi che si allontanano dai bisogni dei cittadini, invece di porli al centro, e quindi vedere le necessità dei singoli e rielaborare una nuova volontà generale, che tenga conto di cosa è sociale, cosa è social network e sappia come rapportarsi all’uno e all’altro.
Come immagine ho scelto il pianista di Kiev che durante le rivolte dell’inverno 2013 rispondeva alle schiere armate con la sua musica, è un qualcosa di non dissimile dalla resistenza che avveniva alcuni mesi prima ad Istanbul a Gezi Park, fra note di chitarra, colori di rose e versi poetici declamati ai poliziotti in sommossa. E’ la capacità, che l’Egitto ha avvertito ancora prima, durante e dopo la primavera araba, degli uomini di restare uniti attraverso la cultura: la volontà di accogliere, capire le differenze e cambiare le strutture imposta dal Governo, costruendo una nuova collettività.
Come si pone il tuo progetto nell’ambito della Biennale Off? C’è una continuità di pensiero tra progetti?
Tutti i progetti di questa Biennale sono partiti dalla linea curatoriale disegnata da Simon Njami. C’è l’idea di un nuovo spazio da abitare, in cui sapere come fare coesistere elementi differenti, di come modellare la fragilità e dare nuove direzioni alla mancanza di libertà d’espressione, di come sincronizzare tempi individuali e collettivi. Identità e costruzione del sé a rapporto con un clima di rivolta. Creazioni di nuovi tracciati per il presente e per il futuro nelle in aree postcoloniali, come il latino America. Il rapporto fra personale e politico nelle diverse esperienze del reale. Mi ha colpito molto Jean Lamore, eccellente pensatore scrittore e artista, in esposizione con una serie di appunti e diari. Per riportarne due piuttosto indicativi: «Mai l’impotenza dell’individuo è stata più completa che quando a confronto con l’amministrazione del mondo» e «Nell’antichità, nulla fu più temuto dell’esilio. Era la forma suprema di punizione, più temuta della morte stessa. Paradossalmente, una non meno piccola porzione di umanità ora vive in esilio». Credo riassumano bene l’idea del volere uscire da un territorio che non ci appartiene e che possiamo lasciare alle spalle e la volontà di entrare a testa sicura in qualcosa d’altro. «Something Else», appunto, come qualcosa di nuovo, più nel metodo che nella forma.
Molti dei lavori sono propositivi rispetto ad una condizione ultra-nazionale (come conseguenza naturale dello statuto globale). Da quando hai ideato il progetto della Biennale ad oggi sono cambiate molte cose. Credi che un sistema democratico, aperto, ultra-nazionale – o transnazionale sia sempre possibile e auspicabile?
Credo che un sistema aperto e transnazionale o post-nazionale sia sempre auspicabile perché ciò significa ripensamento, scambio, ricchezza ed evoluzione. Certamente in questa apertura o livellamento dei confini o meglio rifiuto di appartenere a paradigmi già troppo connotati, il rischio è quello di generare insoddisfazione in coloro che hanno una visione sistemica più definita e del veder incorrere la minaccia.
In greco antico la parola «pharmakon» (da cui l’italiano, farmacia) designa tanto il veleno quanto il rimedio. Lo Stato «oltre nazione» come nuovo «pharmakon» viene visto come veleno da chi vuole la conservazione del salvabile, seppur congelato ma non contaminato. Come i social network, con la loro libera spinta di confronto e circolazione d’informazione, possono essere mal tollerati da chi si tiene sulla corsia di destra, temendo di venir risucchiato dalla velocità vorticosa del Web. La vera sfida sarebbe trasformare il possibile in reale, così come il virtuale in attuale. E nel possibile inscrivo la non appartenenza ad alcuna religione, sistema, nazione o orientamento politico. Per limitare quantomeno il loro potere sulla gestione della vita degli individui, la possibilità e l’arroganza che detengono di poter descrivere o inscrivere in cliché precostituiti una vita umana. Per quanto ancora il valore di un uomo dovrà passare tramite un documento, un’etichetta, un biglietto da visita? Qualcuno in conferenza stampa ha chiesto a Simon Njami quanti artisti egiziani fossero stati invitati. La sua risposta è stata chiara «Non li ho contati, non sono interessato ad alcun tipo di nazionalismo, ma se vuole, lo prenda lei come compito».
Questo ci riporta al tuo progetto «The Nationless Pavilion» della Biennale di Venezia ora presente anche in quella del Cairo. Ci puoi raccontare di come è nato questo progetto, di come si è inserito nell’ambito della Biennale e di come è stato traslato al Cairo?
«The Nationless Pavilion» nasce in seno alla Biennale di Venezia e al suo sistema dei Padiglioni Nazionali, ancorati tutt’ora ad una vecchia idea di nazione. Con Sara Alberani e Caterina Pecchioli e un numero consistente di partners (Open Society Foundation, Lettera27, Archivio Memorie Migranti, Free Home University..) abbiamo costruito ai Magazzini del Sale Docks uno spazio per ripensare cosa significa essere abitanti o cittadini di una nazione; come la nostra nazione di nascita determina la nostra identità e forse il nostro destino, non aiutando però a raccontare nulla di noi, ma anzi limitandoci. Abbiamo lavorato con molti ragazzi rifugiati, di base a Venezia, Lecce (dove gli workshops del Nationless Pavilion si sono dislocati) e Roma, per fare del Padiglione uno spazio inclusivo e non solo descrittivo. Le memorie personali si sono intrecciate nel processo laboratoriale, che fra le altre cose, ha visto la realizzazione di questa «mappa totemica», ora in mostra al Cairo. Si tratta del «Nationless Social System», il risultato del laboratorio condotto da Denis Maksimov (fondatore e leader di Avenir Institute): una decostruzione del modello di Stato tradizionale verso una ricostruzione molecolare della società dove le linee di confine divengono punti di condivisione e dove la logica del movimento e del pensiero libero sottace ad ogni particella. Con Sara e Caterina abbiamo fondato anche la piattaforma artistica «Nation25» volta ad indagare le esperienze di migrazione, marginalità e invisibilità, e a far luce su un territorio così grande e dislocato (quello dei rifugiati politici, che rappresenterebbero la 25’ nazione per demografia). Nation25 è quindi quel «something else» per coloro che non si identificano più con la logica del nazionalismo. E’ aperta e accoglie, anche senza documenti.
Cliccate qui per accedere al comunicato stampa di a New Social Contract alls Biennale Off del Cairo
immagini (cover 1) Videos screening (Miguel Andres, Void, Robert Cahen – Alessandro De Francesco- Matias Guerra, Marco Cadioli, Calixto Ramirez, Marco Mendeni. In the photo a shot “Noise is full of words” by Void ©Amanda KM (3) .Filtered Conversations at round table by Amanda KM ©Amanda KM (4) At the bottom Amanda Km’s Filtered Conversations at rounf table, Nationless Social System by Nation25, Cairo’s skies by Mariagrazia Pontorno in the trhee Arches, Tensions from Below by Michelangelo Consani ©Amanda KM