Ho incontrato Margherita Pevere e Marco Donnarumma a poche ore dal loro debutto con Humane Methods nell’ambito del Romaeuropa Festival all’interno della rassegna Digitalive. Conosco il loro lavoro da un anno, da quando ho visto Eingeweide sempre al Romaeuropa. Uno spettacolo che non mi era punto piaciuto, nell’immediato. Era strano, un po’ freddo ma anche decisamente carnale, aggressivo nella messa in scena eppure estremamente delicato nella coreografia, immediato sicuramente eppure sempre un po’ misterioso. Insomma non mi aveva entusiasmato ma avrebbe continuato nei giorni e mesi successivi a tornarmi in mente nei momenti più impensati, in metropolitana, nel mezzo di una discussione con dei conoscenti, o leggendo un romanzo. In quei momenti le immagini create dal duo di artisti si materializzavano nella mia testa, scompigliando i miei pensieri. È da questa sensazione di fastidio iniziale e sorpresa del ricordare che ho iniziato davvero a seguire e studiare il loro lavoro. Sono convinto che se qualcosa che non mi è piaciuta subito mi rimane sottopelle e ritorna incessantemente come a volersi di nuovo mettere in mostra vuol dire che sono io che devo rivedere il mio giudizio, che devo rianalizzare ciò che ho provato per alimentarmi di quel ricordo, di quella sensazione. Così ho fatto per Eingeweide e nel presente letterario mi trovo davanti a Pevere e Donnarumma a iniziare una chiacchierata fortemente da me ricercata cercando di spiegare come il mio essere disturbato dal loro lavoro precedente mi abbia in seguito enormemente fatto piacere.
Angelo di Bello: Humane Methods è una naturale evoluzione di Eingeweide?
M. P. – Si e no.
M. D. – All’inizio per noi è stato più come prendere una strada diversa a un incrocio, invece che proseguire dritti. L’idea principale del progetto è nata da una condizione di disagio che noi, come artisti, abbiamo sentito nei confronti di quello che stava e che sta succedendo nel mondo: l’intolleranza, la crisi climatica che nessuno pare affrontare, l’ondata di estrema destra, di razzismo sistemico eccetera. Ci siamo quindi chiesti: ma stiamo facendo abbastanza noi come artisti? E quindi in questo senso è stata un po’ una rottura. Da un punto di vista processuale – lo sviluppo di Humane Methods, tutta la ricerca che abbiamo fatto, le discussioni che abbiamo tenuto con il nostro team allargato, perché ci abbiamo lavorato in tanti – diciamo che abbiamo anche seguito una evoluzione di una estetica di un certo pensiero che c’era dietro Eigeweide.
Margherita, tu parti in realtà come artista visiva, Marco parte più come musicista. Questo incontro come è avvenuto? Non sul piano personale. So che siete una coppia nella vita ma, sul palco, qual è il momento in cui vi siete detti: ecco ora stiamo veramente dialogando come ricerca come lavoro?
M.P. – Decidere di lavorare assieme come una coppia non è mai una scelta immediata o facile. Infatti Marco ed io ci conosciamo da diversi anni, le nostre conversazioni col caffè o con l’ultimo bicchiere di vino la sera sono sempre ispirate o comunque riguardano l’arte, la ricerca; però prima di decidere di fare dei lavori a quattro mani ci siamo dati del tempo per imparare a conoscerci. Pur arrivando da due direzioni diverse, una il suono di Marco e per me la pratica visiva, ci sono degli interessi fondamentali che convergono: uno è un approccio critico, un certo tipo di estetica e l’interesse per la performatività dei materiali che stiamo usando. Marco parla per esempio molto chiaramente del corpo e del suono, cosa fa il suono in certe condizioni sul corpo del visitatore. Il mio lavoro indaga, ad esempio, come si comporta una cultura di cellule di tessuto epiteliale, come si trasformano, come manifestare questo poi per il pubblico…
D – Sono d’accordissimo con Margherita e poi un’altra cosa che per me è interessante è che siamo entrambi estremamente appassionati della natura e cerchiamo anche di essere estremamente rispettosi di questa magnificenza della natura di cui siamo parte. Mentre Margherita lo ha sempre tenuto un po’ come centro del suo lavoro, in modi molto diversi però costanti, per un motivo o per l’altro la natura in realtà non ha mai figurato tanto nella mia pratica e quindi collaborare con Margherita è stata anche un po’ un’opportunità di integrare questo discorso: come si parla della natura a livello artistico…
P – …come se ne parla oggi. Ci siamo lasciati alle spalle il romanticismo, ci siamo lasciati alle spalle il mito del progresso del XX secolo…
Sono convinto, come artista e come fruitore, che la tecnologia sia comunque un mezzo, uno strumento. È inevitabile citare Mcluhan e il suo “medium is the message”, però non è un fine, mai. Nella vostra ricerca, anche in questo lavoro Humane Methods, qual è la portata strumentale del messaggio della tecnologia?
D – Spero che l’arte performativa in particolare diventi più attenta verso la tecnologia, non tanto verso la tecnologia come innovazione ma come una necessità. Una necessità critica perché la tecnologia digitale non è una novità di questi ultimi 10 anni, è tutto digitale da molto tempo. La società questa cosa non la capisce, chi la capisce sono semplicemente quelli che governano il sistema capitalistico in cui viviamo, perché possono fare molti più soldi con molte meno risorse. Fortunatamente ci sono degli splendidi lavori nelle arti performative che utilizzano le tecnologie, però in generale viene trattata come un mezzo senza un ragionamento critico sul mezzo. La tecnologia digitale non è un mezzo come un pennello per un pittore: un pennello non è in grado di cambiare la società, un algoritmo si. Poi c’è anche un altro spetto, e uno spunto ce lo fornisce la Raffaello Sanzio Socìetas: nella Tragedia Endogonidia c’è un personaggio impersonato da una macchina che lancia frecce. Questa è una rappresentazione simbolica così forte della tecnologia, dell’impatto della tecnologia, della durezza della tecnologia, della violenza della tecnologia… ed è semplicemente una macchina automatica che spara frecce contro un muro. In Germania per esempio ci sono altri theatre maker che lavorano in questo modo, c’è Kay Voges che è il direttore della Schauspiel di Dorthmund che da diversi anni fa un lavoro con il teatro e la tecnologia molto originale e molto critico che consiglio sempre; però si contano sulle dita di una mano e invece dovrebbe essere lo standard, dovremmo annoiarci a vederne così tanto.
Simone Weill diceva che il sogno dell’uomo del Novecento è quello di assomigliare, diventare una macchina, non tanto come protesi ma la parte peggiore, quella di assomigliare alla macchina nel farsi dire come pensare, accettare un algoritmo scritto da un altro. Questo è il grave problema della società e di come viene utilizzata la macchina dalla società. Ritrovo una certa affinità con la critica che voi fate della tecnologia e alla luce di questo vi chiedo in che modo usate la tecnologia e in che rapporto la mettete con la natura?
P – Personalmente nel mio lavoro non uso algoritmi ma, ad esempio, uso biotecnologia. È un ambito un po’ diverso, però pone domande simili. Per fare un esempio banale, ci facciamo scrupoli ad accettare dei cibi geneticamente modificati perché li riteniamo non naturali. Però la maggior parte delle persone utilizza medicine per terapie più o meno complesse: anche queste distolgono da quello che sarebbe uno “stato naturale” – se mai uno stato naturale è esistito. Siamo tutti dei cyborg, anche senza avere un impianto meccanico. Siamo tutti dei cyborg nel momento in cui prendiamo antidolorifici o altre medicine e siamo dei cyborg nel momento in cui le nostre relazioni sono mediate da questo (indicando il mio smartphone che registra la conversazione, ndr). Quando Marco ed io ci conoscemmo vivevamo in due città diverse e pur essendo molto critici nei confronti della tecnologia abbiamo però usato il telefono e le chat per comunicare….
D – Quello che stavi dicendo prima mi ha fatto riflettere sul come, sia a livello culturale che sociale, la tecnologia è sempre un po’ il fuoco di Prometeo, qualcosa che non è nostro, che arriva dal cielo e in quanto non nostro diventa poi il mezzo di salvezza, diventa il mezzo di controllo. In realtà tutte queste cose sono sbagliate perché la tecnologia la facciamo noi. Stiamo parlando di un certo tipo di tecnologia, la macchina, il digitale, ecc, e quella è nostra, esclusivamente nostra ed essendo nostra è anche naturale perché noi siamo parte della natura. È tutto parte della natura, però, poi, quali sono le implicazioni? Siamo noi che facciamo la tecnologia quindi dovremmo porci anche delle domande su come la sviluppiamo e soprattutto su come la utilizziamo e qui mi lego al tuo spunto cioè accettare certi algoritmi fatti da certe persone – sarebbe meglio dire da certe corporation che lavorano con un certo tipo di persone in un certo tipo di contesto – questi algoritmi sono accettati nella nostra vita semplicemente perché ci rendono le cose più comode; il comfort, questa è una cosa che non abbiamo mai perso, questa esigenza del comfort. Non ci rendiamo conto di come la tecnologia ha cambiato completamente il modo in cui si vive sottolineo nelle società occidentali. Parliamo di tecnologia da persone che hanno il privilegio di poterla esprimere nel modo in cui possiamo noi nelle società o civiltà occidentali o orientali o comunque civiltà e società dominate dal capitalismo avanzato. Perché poi appunto altre società che non si basano sulle logiche capitalistiche di mercato, oppure le società indigene esperiscono la tecnologia in maniera molto diversa…
P – …e non si può generalizzare perché noi non lo conosciamo questo modo di esperire la tecnologia…
D – Esatto! Ammetto che anche io quando ho cominciato 10/12 anni fa non avevo questo aspetto critico sulla tecnologia, è cresciuto piano piano anche grazie o a causa delle esperienze che ho avuto. Ho lavorato per tanto tempo nella comunità accademica dei nuovi strumenti musicali e li appunto, ci sono delle tecnologie fantastiche però la prima cosa con cui mi sono scontrato è appunto questo muro di gomma per cui non interessa tanto questa tecnologia che tu utilizzi, questi strumenti musicali, da dove arrivano, chi li fa e perché li fa.
Trovo molto coerente il vostro discorso con il fatto che nelle vostre performance ci sia così tanto la presenza del corpo. Penso che usare un corpo, mettere in agere, in grado di agire il corpo sia sempre una dichiarazione politica. Quanto è importante per voi avere una coscienza politica da tradurre nelle vostre performance magari attraverso il corpo che diventa azione, cioè fare e agire?
P – Lo è moltissimo! Humane Methods parte ad esempio da una riflessione su quello che vediamo accadere intorno a noi. La scelta di mettere il corpo nei lavori ha una precisa domanda di fondo che è una domanda politica. Il tipo di approccio che abbiamo anche nei nostri lavori individuali ha delle chiare riflessioni politiche anche se non si tratta ovviamente, come immagino tu anche intenda, di una dichiarazione di appartenenza a uno schieramento politico partitico o a una ideologia. Ci sono delle domande sul perché delle cose e sulle conseguenze, sono domande di responsabilità e questo ha moltissime diramazioni. Come artisti sia Marco che io veniamo da un background familiare dove non necessariamente c’è una tradizione artistica e quindi abbiamo dovuto, come molti altri colleghi, fare delle scelte precise sul come fare, dove andare, che tipo di messaggio portare e sono delle scelte non dettate dal lusso e dall’opulenza. Sicuramente è un privilegio poter scegliere di fare l’artista ma sei tu che fai delle scelte e devi rispondere alle domande che ti devi porre: vai di qua o di la? E perché? E che conseguenze ha? Tutto questo si ritrova nel lavoro, con una valenza che è politica nei confronti della società, è politica nei confronti dell’ambiente in cui viviamo. Quindi, politica? si! Certo.
D – Ogni anno che passa noto come il mio lavoro si stia radicalizzando sempre di più, questo è politico sotto diversi aspetti. È sia portare il corpo sul palco e trattare il corpo in una certa maniera – mi piace presentarmi dicendo che uso e abuso di corpi – ma è politica anche una metodologia di lavoro, come si lavora. Ad esempio non ho una compagnia Marco Donnarumma e questo è proprio per definire uno statement. Ho un gruppo artistico con Margherita, con Andrea Familari, con Ana Rajcevic, con Christian Schmidts, con un sacco di persone diverse e lavoriamo in maniera collaborativa, chiunque fa qualcosa, muove un dito, ha il nome nei credits, anche questo è politico anche se ovviamente a un livello diverso. E poi anche il discorso di mischiare, imbastardire le discipline anche quello per me è politico, è un altro statement. Si tratta anche di prendere dei rischi e di non cadere nella banalizzazione dei temi: se speculi su un problema palesemente politico allora diventi l’eroe nazionale e vai su tutti i giornali ma in realtà non stai facendo nulla, quello che stai facendo è semplicemente sostenere il common sense. Questa è una cosa che cerchiamo di evitare nel nostro lavoro. Pe questo motivo nel nostro lavoro cerchiamo di parlare di queste cose in tanti modi diversi.
L’ultima domanda è sul pubblico: in che rapporto siete e che tipo di rapporto cercate con il pubblico?
P – Il pubblico dipende anche molto dal contesto in cui di mostra il lavoro. Un lavoro come Eigeweide può andare al Muenchner Kammerspiele, può andare in un festival, può andare in un museo e lo abbiamo portato in tutti e tre. Le installazioni di Marco, le mie installazioni hanno un pubblico che dipende dal contesto. Sul rapporto con il pubblico… a me piace molto quello che hai descritto tu di qualcosa che ti entra e ti resta come un tarlo. Quando ho io questa sensazione, spesso sono lavori che poi mi accompagnano, non necessariamente mi piacciono però che mi accompagnano. Ciò che tu hai descritto manifesta anche l’esser disturbati inizialmente e successivamente si rivela un qualcosa di indecifrabile. Solo se c’è questo enigma poi ci pensi e continui a pensarci e quindi quello che mi piacerebbe riuscire a comunicare ad un pubblico è un enigma. Gli spettatori possono possono pensare, possono trovare anche delle critiche da muovere però non è un rapporto lineare, non è una delivery, non è qualcosa che accontenta o soddisfa certe esigenze anzi è disturbante, ti obbliga a spostarti sulla sedia prima di trovare la tua risposta.
D –Anche io mi trovo con quello che dice Margherita. Per me è importante capire come mettere il pubblico a disagio fino a un certo limite per cui non vogliono andarsene via dallo spettacolo, però quasi. Mi interessa molto capire il pubblico in questo senso, fino a quanto puoi rischiare, fino a quanto puoi spingerti. Perché se riesci a trovare quella edge molto molto piccola poi puoi creare dei lavori che abbiano davvero un impatto. Quello che io spero ogni volta che inizio un nuovo lavoro è che il lavoro abbia un impatto, non un impatto mediatico ma un impatto un po’ come descriveva prima Margherita e come descrivevi tu la tua esperienza con Eigeweide. Questo per me deriva da un’idea che ho da sempre: il senso critico deve essere sviluppato da tutti, da più persone possibile, e più vado avanti con gli anni e meno viene sviluppato. Invece è fondamentale sviluppare un senso critico; quindi nel mio lavoro non voglio dire delle cose voglio pungerti per sviluppare un certo tipo di senso critico, e questo cerco di farlo a livello percettivo, al livello corporeo e un pochino al livello celebrale, anche se poi la razionalizzazione porta sempre via qualcosa, cerco quindi di andare sempre un pochino più a fondo, inframuscolare.
Questa conversazione è avvenuta in occasione della performance Humane Methods di Marco Donnarumma e Margherita Pevere al Digitalive 2019, rassegna dedicata alle arti algoritmiche del Romaeuropa Festival curata da Federica Patti. La performance Eigeweide alla quale si fa più volte riferimento nel corso dell’intervista, è stata realizzata Romaeuropa Festival. Digitalive 2018.
immagini: (cover 1-2-3-4-6) REF19_Digitalive.04.10_Marco Donnarumma, Margherita Pevere – Human Methods. Foto di Giada Spera (5-7-8-9) REF19_Digitalive.04.10_Marco Donnarumma, Margherita Pevere – Human Methods. Foto di Piero Tauro