Il percorso di ricerca sulla ‘curatela come storia fenomenologica della quotidianità’ di Kisito Assangni prosegue, oggi, nel confronto con il critico, teorico, curatore e storico dell’arte Matthew Bowman per discutere la possibilità di istituire una nuova attualizzazione della soggettività.
Kisito Assangni: In che modo i musei e le università possono fungere da strumenti pedagogici in una sfera pubblica caratterizzata da una sempre maggiore intolleranza?
Matthew Bowman: Attualmente, la situazione nel Regno Unito è molto preoccupante (a dire il vero, lo è spesso), poiché il partito conservatore è impegnato ad alimentare una guerra culturale finalizzata a garantire la propria base di potere attraverso una politica di divisione polarizzante. Ancora una volta, l’arte, e più in generale la cultura, si trova coinvolta su diversi fronti. Oliver Dowden, Segretario per il digitale, la cultura, i media e lo sport, è intervenuto nei consigli di amministrazione dei musei, ha minacciato gli enti finanziatori e ha cercato di promuovere una storia della società inglese in cui tutte le disuguaglianze sono una via di mezzo tra un miraggio e un’illusione ideologica, quindi non sono reali nella mentalità dei Tory. Gavin Williamson, Segretario all’istruzione perennemente confuso sulla distinzione tra istruzione e formazione, pur essendo perlopiù incapace di apportare benefici a entrambe, ha sistematicamente cercato di declassare le arti e le discipline umanistiche a tutti i livelli scolastici a favore delle cosiddette materie STEM. Questa classica mossa a tenaglia, un autentico agguato su due fronti, è stata messa in atto in un momento in cui il movimento per i diritti civili, forte di nuova vitalità, è emerso a livello internazionale per contestare la discriminazione razziale, la distruzione deliberata del clima, le disuguaglianze basate su genere e sesso che continuano a essere perpetrate. A causa della vicinanza tra le istituzioni culturali, le sovvenzioni governative e le sponsorizzazioni aziendali all’interno della sfera pubblica, i musei e le università si trovano di fronte a una vera e propria sfida. In sostanza, i finanziamenti da cui dipendono per la loro sopravvivenza sono a forte rischio, una situazione ulteriormente aggravata dalle conseguenze della Brexit. Questo comporta, quindi, che il potenziale valore pedagogico di musei e gallerie attualmente è messo a repentaglio. Seppur nella negatività, sottolinea anche un ulteriore aspetto, ossia che quelle istituzioni hanno un certo peso: volerle sminuire, interferire nelle loro politiche, riorientare le mostre, tutto ciò testimonia la forza pedagogica di musei e gallerie. Se la destra credesse davvero che tali istituzioni hanno poco o nessun valore, allora potrebbe quasi lasciarle in pace. D’altronde, nessuno crede nel potere dell’arte quanto l’iconoclasta. A volte si dice che l’arte fiorisce nei momenti difficili. Forse è un’esagerazione eccessivamente deterministica, ma i musei e le gallerie non possono tirarsi indietro di fronte a una guerra culturale e, forse, hanno persino bisogno di usarla come carburante. Più facile a dirsi che a farsi, senza dubbio. Ma è qualcosa per cui l’arte ha un certo talento, e se l’arte non è supportata dai musei e dalle gallerie tradizionali, allora saranno le istituzioni alternative a intervenire.
Quali sono gli elementi soggettivi e oggettivi che rendono significativa e preziosa la pratica curatoriale cooperativa?
C’è il rischio che io interpreti male i termini «soggettivo» e «oggettivo» nella mia risposta, ma spero in modo giustificato e fruttuoso. Consideriamo «soggettivo» non come connotazione personale, ma in termini di una soggettività che si manifesta e si produce nelle mostre.
Negli ultimi mesi ho notato che l’estetica di Immanuel Kant è una presenza ricorrente nei miei scritti.
Ma cosa offre nel 2021? È interessante perché, in parte, la sua estetica non rappresenta affatto una base per giudicare le opere d’arte (buone, cattive, belle, brutte, critiche o altro), ma piuttosto costruisce un resoconto che chiarisce le motivazioni intersoggettive del giudizio.
Per Kant, non ci sono regole a governare la bellezza, nulla ci permette di etichettare a priori un’opera d’arte come “bella”; l’atto del giudizio, tuttavia, non è un’espressione di preferenze estetiche personali.
I nostri giudizi non sono espressi come un’affermazione di gusti personali, sostiene Kant, né sono applicazioni di regole; piuttosto, sono loro a determinare la regola e contano solo nel momento in cui sono espressi. Poiché sono “espressi”, il giudice scopre se il proprio giudizio parla per gli altri, se è conforme alla loro esperienza, e quindi anche se esiste o meno una comunità di interessi condivisi.
Le generazioni di pensatori immediatamente successive a quella di Kant avrebbero affrontato le conseguenze della sua concezione dell’estetica.
Sebbene Hegel non percepisca la propria filosofia come un’estensione dell’estetica di Kant, è comunque realistico sostenere che la concezione di Hegel della soggettività e dell’esperienza non come qualcosa di aprioristico e immediato, bensì che si verifica effettivamente solo attraverso l’articolazione e come articolazione in una rete inter-soggettiva, sia una rivisitazione di Kant.
Detto altrimenti, l’espressione dei giudizi estetici è l’attualizzazione della soggettività; prima di questa espressione, non esisteva soggettività in quanto tale o, per lo meno, una soggettività diversa.
Allo stesso modo (e in maniera assai più sintetica) intendiamo il termine «oggettivo» non come neutro, disinteressato o impersonale, ma come nome della relazione specifica con l’oggetto artistico.
L’«oggetto» artistico condiziona le nostre risposte e i nostri giudizi affettivi, ci spinge a riunirci e riflettere.
L’«oggetto» precede il giudizio. In questo caso, si può dire che le mostre, in quanto esposizioni d’arte o occasioni offerte all’arte, sono spazi in cui le soggettività vengono istituite o rifatte. Le mostre ci permettono di scoprire che tipo di comunità siamo, anche se solo temporaneamente, poiché ogni mostra costringe a un nuovo giudizio e quindi istituisce una nuova attualizzazione della soggettività.
La speranza è che la comunità sia diversa dalla massa alienata, come l’agglomerato di individui sui social media, e che sia uno spazio in cui scopriamo l’essere-con e la compresenza, ciò che condividiamo nella differenza e attraverso la medesima, piuttosto che la mera separazione e individualità.
In che modo le strategie curatoriali danno forma alle istituzioni culturali nella società contemporanea e che tipo di potenziale critico e trasformativo può essere individuato nelle culture espositive?
Da tempo sono interessato all’idea che ciò che è stato definito «sfera pubblica» abbia trovato la sua prima articolazione formativa all’interno e intorno all’esperienza dei salotti parigini, soprattutto nel corso del XVIII secolo. Autori come Denis Diderot cercavano esplicitamente di parlare al pubblico e di contribuire alla creazione di questo pubblico producendo opere di critica d’arte. In altre parole, potremmo immaginare che la critica d’arte abbia cercato di riconoscere, e forse anche di attivare, una sfera pubblica semi-amorfa che si andava formando intorno alle mostre d’arte. Certo, si potrebbe obiettare che, nonostante le aspirazioni democratiche di Diderot, la sfera pubblica da lui sognata rimase assai stratificata. La Rivoluzione francese aprì i salotti in modo più completo, e si possono percepire rivisitazioni e radicalizzazioni del progetto di Diderot nella recensione di Charles Baudelaire del Salon del 1846 (anche se la versione di Baudelaire, forse con deliberata ironia, trasuda tirannia incentrandosi sui borghesi). Da quei tempi esaltanti, l’idea di una relazione positiva tra la sfera pubblica e le mostre ha vissuto alti e bassi. Lo scetticismo su questi temi è forse giustificato, poiché qualsiasi tentativo di creare una sfera pubblica più genuinamente inclusiva e socialdemocratica non può essere imposto solo all’arte. Tuttavia, vale la pena di abbracciare la convinzione che le opere d’arte possano incarnare forme alternative di esperienza, al di là di quelle imposte dall’apparato disciplinare del capitalismo, e che tali opere siano innanzitutto esperite nell’attualità di un contesto espositivo. La storia dell’arte è spesso, in larga misura, la storia delle opere esposte; le pretese che attribuiamo all’arte non possono essere disgiunte dalle strutture espositive.
A questo proposito, l’Institutional Critique non rifiuta in toto tali strutture, come ad esempio il museo, ma è convinta che queste possano svolgere un compito positivo e vitale se vengono utilizzate in modo corretto e ragionato.
Una mostra può essere considerata filosofia, antropologia, sociologia, eccetera? Come si confronta questo modo di presentare le idee con un saggio o con altri prodotti accademici più tradizionali?
Sulla prima domanda ho opinioni contrastanti. In alcune occasioni ho percepito che le opere d’arte in sé non sono filosofia, ma possono esercitare effetti filosofici e aprirsi alla dissertazione filosofica.
In genere mi è accaduto parlando con filosofi professionisti, specialmente quelli impegnati nell’arte o interessati a essa in qualche modo. La mia negazione dell’arte come filosofia mira in parte a mantenere una sorta di spazio tra l’arte e la filosofia, in cui ognuna possa affermare la verità in base ai propri mezzi e contesti, in parte a evitare che l’arte si trasformi nell’immagine di sé della filosofia, e infine a proteggere l’arte dalle aspettative che la vedono soddisfare protocolli consolidati di argomentazione filosofica e di verità, che possono fare sì che alcune opere specifiche vengano bollate come cattiva filosofia o come assurde dal punto di vista filosofico.
Alla base di tutto questo c’è una lunga storia condivisa tra arte e filosofia, inaugurata dalle notevoli argomentazioni di Platone nella sua Repubblica. Questa storia ha visto molti colpi di scena e, in tempi più recenti, ha generato una biforcazione tra la filosofia (analitica o continentale) e ciò che è stato genericamente definito «teoria». Eppure, sostenendo che le opere d’arte «esercitano effetti filosofici» e «si aprono alla dissertazione filosofica», non si potrebbe semplicemente osservare che le opere d’arte altro non sono che un altro modo di fare filosofia? È qui che emergono i miei personali conflitti intellettuali, ma forse ha senso sostenere che le opere d’arte non sono filosofia, ma modi di «fare filosofia». Per dirla come Heidegger (o meglio, come l’Heidegger che si scontra con Hegel per produrre le varietà di discorso tipicamente definite post-strutturaliste) potremmo affermare che l’opera d’arte pratica il «pensiero» piuttosto che la «filosofia» in sé. Per questo motivo, la non conoscenza può essere un telos legittimo di un’opera d’arte, che consegna l’arte al mero irrazionale o all’ineffabile. Indubbiamente la mia risposta si è allontanata dalla sua domanda, quindi cercherò di ritornarci. La domanda riguardava le mostre, piuttosto che le opere d’arte in quanto tali, e andava oltre la filosofia. In sostanza, il tenore generale della mia risposta resta più o meno lo stesso, con piccole modifiche. Anche le mostre «esercitano effetti filosofici» senza poter essere ridotte a filosofia: le regole di ingaggio sono diverse. Le cose stanno forse diversamente quando si tratta, ad esempio, di antropologia, la cui accumulazione e studio di manufatti materiali e costumi è storicamente andata di pari passo con le modalità di esposizione. Infatti, mentre esistono numerosi musei e mostre dedicati all’antropologia/etnografia a livello internazionale, è difficile immaginare una situazione analoga per la filosofia o la sociologia. Ciò non significa che le mostre non si occupino o non possano occuparsi di questi argomenti: al contrario, le mostre possono riguardare, in un modo o nell’altro, la filosofia e la sociologia, perché sono in grado di destrutturare questi campi di produzione della conoscenza.
In un mondo di politica della post-verità, come può l’arte, dall’interno di una pratica disciplinare, trattare le questioni del reale, della verità e della fattualità?
Proporre un «come» in quanto tale è probabilmente molto più difficile che immaginare quali condizioni devono essere presenti per concepire le nozioni di verità, realtà e fattualità. E potrebbe valere la pena di seguire il filosofo Hans-Georg Gadamer (che a sua volta estende il contributo di Martin Heidegger alla fenomenologia) contrapponendo la verità al metodo (quest’ultimo costituisce un «come» o un «come fare» come descrizione ermeneutica). Naturalmente, anche il modo in cui definiamo la «verità» dal punto di vista filosofico è molto complicato e aperto al dibattito: implica forse la «corrispondenza»? O, visto che è stato appena citato Heidegger, l’«aletheia»? L’arte ha da tempo messo in discussione ogni facile concezione della verità, e qui la questione diventa ancora più affascinante e spinosa. Si pensi, ad esempio, ai famosi fotomontaggi di John Heartfield, come quelli contenuti in A.I.Z, risalenti più o meno 1932, finalizzati a prevenire l’ascesa al potere di Hitler. Un fotomontaggio come Adolf the Superman: Swallows Gold and Spouts Junk presenta un’immagine di Hitler con il busto radiografato, rivelando così una montagnola di franchi tedeschi che si innalza a partire dalla pancia. L’immagine è ovviamente «falsa», poiché è composta da vari elementi. Sebbene presenti elementi indicali, il modo in cui questi sono stati disposti comporta il rifiuto di qualsiasi connessione diretta tra indicalità e veridicità o valore documentario. Ciò non significa tuttavia che dovremmo ignorare il fotomontaggio di Heartfield come esempio prebellico di propaganda della post-verità.
Al contrario, il fotomontaggio sfrutta volutamente l’indicalità della fotografia diretta per sottolineare il suo legame cosiddetto naturale con la verità. Inoltre, in modo brechtiano, apre la strada al dubbio che la verità non possa essere stabilita da una trascrizione fotografica diretta, apparentemente non mediata, ma che sia necessaria l’interazione di frammenti eterogenei costruiti insieme.
In altre parole, suggerisce che la finzione, seppur basata sull’irrealtà e su situazioni immaginarie, non esiste in opposizione alla verità. Sono passati diversi decenni da quando questa strategia d’avanguardia è stata messa in atto per la prima volta, negli anni successivi alla Prima guerra mondiale. Ma è una strategia che, nel frattempo, è stata replicata molto e reinventata all’interno di varie neoavanguardie, generi postmoderni e nell’arte contemporanea. Ad esempio, in artisti come Hito Steyerl possiamo vedere più delle sue semplici vestigia, e funge da strumento per interrogare le costruzioni della verità nella cultura mediatica del XXI secolo. A essere problematico è il fatto che può servire indirettamente come potenziale difesa della «post-verità». A quanto pare, molti esponenti della destra che lamentano la demolizione della verità assoluta da parte del postmodernismo, sostituita da una moltitudine di prospettive, sono anche felici di difendere queste nozioni di post-verità. Tuttavia, non vorrei che ci fosse un collasso tra, da un lato, i modi dell’avanguardia artistica e le lezioni del postmodernismo e, dall’altro, le ideologie della post-verità. I primi mettono in atto un legame tra forma e contenuto: una forma fittizia autoconsapevole, utilizzata per proporre contenuti che trasmettono ed esaminano la verità. La verità viene testata, non affermata. La post-verità è meno legata al contenuto veritiero della sua forma, la quale si limita invece a essere accattivante, condivisibile nell’universo dei social media ed estrinseca a qualsiasi contenuto.
In che modo i recenti movimenti di massa delle persone cambiano la pratica curatoriale del futuro?
La sua è una domanda piacevolmente ambigua, quindi mi permetta di giocare un po’ su questa ambiguità! Se la domanda riguarda gli approcci o le criticità curatoriali del futuro (che è il modo in cui dapprima l’ho interpretata), allora direi che, storicamente, la pratica curatoriale emerge dall’ascesa dei musei durante l’Illuminismo e il XIX secolo. In concomitanza con l’affermazione quasi simultanea degli Stati nazionali, i musei sono diventati spazi della sfera pubblica in cui l’identità collettiva può essere manifestata e forse anche interrogata.
Che libri o mostre ci consiglia?
Anche se non è una mostra vera e propria, consiglio vivamente il sito web Archive of Destruction di Jes Fernie. La mostra su Jean Dubuffet al Barbican presenta con generosità la sua carriera.
Per quanto riguarda i libri, queste domande mi ricordano che devo tornare a leggere What Happens After Farce? di Hal Foster. Ma sto apprezzando molto anche i vari libri di Darby English, in particolare il suo 1971: A Year in the Life of Color.
immagini: (cover 1) Roni Horn, «Untitled (I deeply perceive that the infinity of matter is no dream)», 2014 (2) Eva Hesse,«Right After», 1969 (3) André Valensi, «Pièges à regard…»,1990 (4) Theaster Gates,«Raising Goliath», 2012 (5) Hannah Stageman, «Untitled (Stour Woods)», 2013
Matthew Bowman è un critico, teorico, curatore e storico dell’arte che vanta numerose pubblicazioni, e ha conseguito il dottorato presso l’Università dell’Essex con una tesi sull’October journal e su come ripensi la specificità del mezzo. È docente di Belle Arti presso l’Università del Suffolk, e scrive regolarmente pezzi di critica d’arte per «Art Monthly». La sua ricerca si concentra sull’arte, la critica e la filosofia del XX secolo e contemporanea negli Stati Uniti e in Europa. Bowman è autore di numerosi saggi, e nel 2018 ha pubblicato Indiscernibly Bad: The Problem of Bad Art/Good Painting sull’Oxford Art Journal, mentre nel 2019 The Intertwining—Damisch, Bois, and October’s Rethinking of Painting. Il suo saggio Art Criticism in the Contracted Field è stato inserito nel «Journal of Aesthetics and Art Criticism» nel 2021, e quest’anno ha pubblicato un saggio su Douglas Crimp intitolato The Haunting of a Modernism Conceived Differently su «InVisible Culture». Al momento, sta ultimando una raccolta di saggi che sarà pubblicata con il titolo The Price of Everything and the Value of Nothing: Art Criticism and the Art Market per Bloomsbury e l’October journal, e The Expanded Field of Art and Criticism per Routledge. Alcuni degli scritti di Bowman sono reperibili al seguente indirizzo: https://ucs.academia.edu/MatthewBowman
L’intervista a Matthew Bowman è parte della ricerca di Kisito Assangni sulla pratica curatoriale:
Dialoghi transitori con rinomati curatori che si interfacciano in maniera positiva con le pratiche artistiche grazie a un’assistenza non prevaricante e a metodi pedagogici alternativi, senza perdere di vista la cronopolitica e le esigenze contemporanee nel contesto di più ampi processi politici, culturali ed economici. In questo momento storico, oltre a sollevare alcune questioni epistemologiche sulla ridefinizione di ciò che è essenziale, questa serie di interviste rivelatrici cerca di riunire diversi approcci critici riguardanti la trasmissione internazionale del sapere e la pratica curatoriale transculturale e trans-disciplinare. (Kisito Assangni).
Interviste precedenti:
Kisito Assangni, Intervista a Nadia Ismail (Arshake, 23.03.2022)
Kisito Assangni, Intervista a Mario Casanova (Arshake, 14.01.022)
Kisito Assangni, Intervista a Nkule Mabaso, (Arshake, 09.11.2021)
Kisito Assangni, Intervista a Lorella Scacco, (Arshake, 20.07.2021)
Kisito Assangni, Kantuta Quirós & Aliocha Imhoff. Metodologia curatoriale come dialogo inter-epistemico (Arshake, 11.05.2021)
Kisito Assangni, Intervista ad Adonay Bermúdez. Non c’è posto per le verità universali nella pratica curatoriale (Arshake, 08.06.2021)